Umbria, le contraddizioni e le potenzialità delle riforme regionali

La nuova ed ennesima riforma endoregionale sta diventando una bella montagna da scalare. Non tanto per i provvedimenti di compressione del vecchio sistema, quanto per le ripercussioni che questo può avere sugli equilibri della politica umbra. Siamo alla terza fase. La prima, quella dell’abbondanza, è stata caratterizzata da una espansione a pioggia degli enti ed incarichi, soprattutto a livello periferico. Qualcuno che si è divertito a contarli e tra piccoli e grandi il numero avrebbe raggiunto la cifra di qualche migliaio. Non so se la conta sia esatta, ma so che erano un botto. Poi la seconda fase, quella della scorsa legislatura, quando di fronte alle prime difficoltà finanziarie e all’impossibilità di sostenere questo mastodontico apparato, si è scelto di ridurlo, mantenendo in piedi i grandi incarichi (Asl, Comunità Montane, Ati ecc.) smantellando il piccolo cabotaggio (Consorzi, parchi, enti settoriali ecc.). Adesso siamo alla terza fase e la linea mi pare chiara. Bisogna rinunciare a gran parte delle diramazioni periferiche (un solo Ati, niente Comunità Montane, Probabilmente riduzione delle Asl ecc.). Rimarranno le strutture primarie. Cosa comporterà un simile cambiamento? Comporterà che le nomine, essendo centralizzate, potranno soddisfare le necessità del ceto politico che ruota attorno ai gruppi dirigenti regionali. Non ci sarà più, per la periferia, la possibilità di sistemare le proprie questioni interne,attraverso la distribuzione di altri incarichi, diversi da quelli in mano ai Comuni. La pressione sul centro, inevitabilmente, aumenterà e il bilancino sui territori, applicato a man bassa, sulla distribuzione delle poltrone delle Giunte provinciali e regionale,dovrà, probabilmente, essere applicato anche ad enti, aziende pubbliche e quanto fa potere. E non è un caso che la lista dei papabili alla direzione di queste nuove realtà istituzionali, si stia allungando e di brutto. Il pericolo è quello di un aumento della conflittualità politica tra centro e periferia. I vassalli locali, privati della possibilità di soddisfare gli appetiti dei loro valvassori e valvassini, faranno fatica a ricomporre un quadro di fedeltà alla loro leadership. Di conseguenza anche gli uomini di riferimento  avranno le loro gatte da pelare con i loro referenti periferici. Eppure la nuova situazione potrebbe anche aprire scenari nuovi e più consoni ad un efficace governo dell’Umbria. La nostra regione, lo ripeto da tempo, ha un grande bisogno di centralismo. L’idea delle cento città ha portato a spinte disgregatrici, alla lotta tra territori, ad un sistema chiuso non dialogante. Una delle caratteristiche di questa linea che si è affermata negli ultimi 10 anni, è l’assalto al capoluogo, la sua relegazione ad un territorio qualsiasi. Anzi ad una zona di emarginazione. Le grandi infrastrutture sono state pensate lontano da Perugia. L’unica grande strada in costruzione è la statale 77 che porta da Foligno a Civitanova Marche, i progetti ferroviari sono fermi al raddoppio dell’Orte – Falconara via Foligno – Fossato di Vico, le piastre logistiche per lo stoccaggio delle merci riguardano Terni, Foligno e Città di Castello, le poche novità di innovazione industriale sostenute sono tutte ubicate nel centro – sud della regione e mi fermo qui. Il forzato accentramento delle competenze degli enti non elettivi può, quindi, costituire una occasione per una proficua inversione di tendenza. Ma saprà la nuova Giunta resistere alle campane e alle pressioni dei territori e produrre una politica che faccia ritrovare una unità di azione e che , soprattutto, ricostruisca uno spirito di appartenenza regionale, da tempo smarrito? L’Umbria più si accapiglia, più si divide e più diventa, per dirla alla Metternich, “un’espressione geografica”. L’epoca del cosiddetto Federalismo contiene il germe della semplificazione territoriale. Le regioni piccole vivono sull’orlo del baratro. Se poi risultano, come nel nostro caso, un consorzio di comuni divisi tra loro, sarà più facile sopprimerle, smembrarle in tanti pezzi e accorparle. I primi sintomi di questi pericoli si sono avuti già quest’anno, con la richiesta di abolizione delle province di Isernia e Matera, che avrebbe evidenziato l’inutilità di Basilicata e Molise. La necessità di cambiamento è quindi un fatto imperativo. Ma per vincere questa battaglia occorre che la riforma, qualunque essa sia, venga concepita come un taglio deciso con il passato. Non può e non deve essere letta come l’estremo mantenimento di un sistema di potere che, fra parentesi, fa ormai acqua da tutte le parti, ma come il punto di partenza di una nuova concezione regionalista. Quella che ha una visione unitaria della sua terra, che vive il suo capoluogo come elemento di riconoscimento e di aggregazione delle diversità, che punta a creare uno spirito forte di identità. E questo presuppone un altro passo decisivo, quello relativo alla formazione di un sistema delle autonomie, di una rete sussidiaria che è in grado di evidenziare le vere priorità, di unificare e rendere proficue tutte le risorse a disposizione, evitando di bruciarle in mille ed inutili rivoli. Si mi accorgo che sono scivolato sul politichese e allora mi spiego meglio. Basta con una scuola superiore in ogni comune, basta con gli ospedali di paese, basta con una superstrada per ogni territorio, basta con decine di aziende dei rifiuti e dell’acqua, basta con piani regolatori di Comuni vicini, simili e in concorrenza tra loro, basta con le mille zone industriali che di industriale hanno solo la pretesa, basta a “doppi servizi” che distano un metro dall’altro solo perché stanno in Comuni diversi ecc. Governare vuol dire affrontare questi nodi. E se la soluzione, come penso, è quella di centralizzare, Facciamolo e alla svelta. Del resto tra Terni e Città di Castello ci sono poco più di 100 km. Una distanza piccola che dovrebbe rendere più facile il Governo. Ma in Umbria le distanze sembrano invece abissali. E’ come se si fosse tornati all’epoca del somaro, quando per andare dal Pantano al mercato di Perugia, ci volevano 6 ore di tempo e arrivati ad una delle porte bisognava pagare il dazio, se no non si entrava. Una situazione (quella del dazio) che piacerebbe tanto a diversi nostri amministratori.

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