La città di Gubbio, da sempre si può dire (1160 anno della morte di Ubaldo Baldassini) ha unito il proprio nome alla singolarissima processione che in Umbria conoscono tutti e che non ha eguale al mondo per le modalità di svolgimento nell’ambito delle feste popolari e devozionali. La singolarità della “Corsa” non consiste tanto nella eccentrica modalità della celebrazione della memoria del santo patrono Ubaldo con quel modo irruento che conosciamo, quanto nella peculiarità della propria storia, che sembra direttamente collegata ad un antichissimo rito pagano risalente alla civiltà dei popoli Umbri del VIII-IX secolo a.C. L’avvento del cristianesimo, poi ha sposato nel corso dei secoli questa manifestazione, innestandovi gli elementi cultuali e liturgici che gli sono propri e che, conservati e rinvigoriti, sono giunti fino a noi. Non si può negare che la religiosità devozionale che si esprime nella Festa sia prettamente cristiana, proprio per la presenza di tutti quegli elementi rituali necessari a che il sacro sia celebrato con solennità, tuttavia “la corsa dei Ceri”, in quanto espressione tumultuosa pseudo-agonistica della più ampia Festa patronale Ubaldiana, non esaurisce la celebrazione liturgica, che continua nella giornata del 16 maggio, anniversario della morte del Santo. Nel corso di questo ultimo periodo di tempo (2-3 generazioni) si sta assistendo tuttavia ad una mutazione almeno formale (ma temo anche sostanziale) delle caratteristiche intrinseche che hanno da sempre motivato la celebrazione stessa della Festa. Le critiche sono rivolte principalmente verso la “Corsa” in quanto, a fronte di un indubitabile entusiasmo e costante partecipazione emotiva si stenta a ravvisarne, come in passato, le premesse di carattere spirituale, religioso, morale che dovrebbero invece costituirne l’humus fondamentale. Si intravede, tra le compagini che formano il nerbo della Corsa, (dette Famiglie) una progressiva litigiosità organizzativa ed esecutiva, e un’eccessiva attenzione ai protocolli ufficiali del corteo senza minimamente occuparsi delle valenze religiose e devozionali che al contrario danno sostanza alla dinamica della festa. Il fatto che poi il “Comitato per la Festa” sia disperso in molteplici personalità “giuridiche” per così dire ( Comune, Università dei muratori, Le Famiglie, Maggio Eugubino, Diocesi) complica il momento decisionale e frammenta, se non disperda, ogni eventuale modifica tecnico-pratica, la necessaria progettualità promozionale e (perché no?) ogni volontà didattico – formativa per le nuove generazioni. Si assiste ad una mutazione genetica della Festa in cui la “Corsa” fagocita del tutto l’affetto emotivo e la passione festante, per cui l’aspetto più prosaicamente agonistico (che agonistico non dovrebbe essere) dell’evento corsaiolo assume una valenza preponderante se non esclusiva, travisandone le finalità religiose: la devozione esige compostezza, comunitarismo, educazione, moderazione, partecipazione seppur festosa e gioiosa. La deriva sguaiata, scomposta e rozza che ha assunto negli ultimi tempi la preparazione della festa (con gli aspetti più fastidiosamente triviali di cene pantagrueliche, raduni collettivi a base di bevande alcooliche con tutto il portato comportamentale susseguente, che è facile immaginare), è frutto, da una parte del calo vertiginoso nella percezione collettiva del simbolo dell’evento religioso, dall’altra parte, e questo è l’aspetto più triste, dell’inaridirsi della testimonianza di fede individuale dei partecipanti. Si dirà che la tendenza della moderna società occidentale consista nel progressivo ateismo nichilista dilagante, cui la stessa comunità eugubina non fa eccezione, ma questo fatto non fa che aumentare il rammarico ed il disappunto di chi assiste alla sacra commemorazione convinto di onorare la memoria di un santo e di pregare affinché interceda per il benessere della propria comunità. In questa luce, è facile prevedere in un fosco futuro, un’accelerazione di questo processo distruttivo del significato della Festa di Sant’Ubaldo, con una progressiva perdita di significato dell’evento religioso per assumere magari i connotati di una celebrazione orgiastica dei caratteri umani del popolo umbro, una tendenza paganizzante di un avvenimento primitivamente religioso, una plastica rappresentazione dello stato attuale in cui versa il patrimonio etico-morale dell’uomo di fronte alla santità. Ciò che rivela nell’intimo questa disassuefazione alla Festa della memoria, quasi fosse una forma di tossicosi, è la perdita di attaccamento al luogo del santo che è poi il nostro luogo di vita: senza memoria, senza luogo anche la nostra identità si scolora per finire in un inutile sforzo che sfinisce e basta, proprio come ci si sente alla fine della “Corsa”.
MASSIMO CAPACCIOLA
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