LACRIME COME SE PIOVESSE, “Ci sono persone che, lacrimando per mestiere, non hanno mai pianto.”

piantoSarà per non aver vissuto la tragedia della guerra, la povertà e l’indigenza del Terzo e Quarto mondo, sarà che lo slogan  preferito da noi sessantottini era “una risata vi seppellirà” comunque sia, la mia generazione ha perduto l’abitudine al pianto, la frequentazione con la rassegnazione disperata. O meglio, senza la partecipata presenza di pubblico attonito. Questo è il punto: da sempre il pianto è stata la spontanea, sincera, appagante manifestazione del lutto privato; il pianto incontenibile, esibito come una vergognosa piaga interiore e che nondimeno sanava, almeno temporaneamente, il dovere pungente di manifestare alla cerchia dei vicini la responsabilità di una perdita. Oggi, invece, al tempo della spettacolarizzazione del privato, con esibizioni morbose di atteggiamenti intimi che un tempo erano relegate nel profondo delle inquietudini personali, si piange ogni momento, anzi ogni momento è adatto a versare lacrime in diretta o in differita televisiva. Non è mutata solo la sensibilità personale rispetto al dolore sopportato, è anche mutato il significato delle lacrime, e la finalità che l’emotività afflitta si prefigge. Oggi si piange in pubblico per attirarsi consensi e solidarietà, per placare un alterco e spiazzare l’avversario in procinto di dispensare ceffoni, ma si piange anche per finta e gratis. Lacrimare, gridare, esagitarsi e dimenarsi platealmente era costume folkloristico, svolto con grande passione e dietro compenso dalle “prèfiche” (dal lat. Praeficio= metto a capo) alle esequie pubbliche. Oggi, invece ai funerali, si preferisce riversare una valanga di applausi all’indirizzo della salma e, piuttosto che rifugiarsi in una solitaria riflessione sul senso della morte, frotte di presenti, tutti muniti di facce di circostanza e occhialoni scuri (per dare l’illusione di celare lacrime furtive?) stazionano impacciati sui sagrati di chiese, altrimenti deserte e desolate. Si diceva delle lacrime su commissione e infatti è dato di assistere sempre più spesso al “format lacrimoso”, un seguitissimo tipo di show televisivo, dove il pianto, discreto, singhiozzante o torrenziale, imperversa diabolico, come una specie di rito collettivo di purificazione di ogni angoscia personale che ci affligge senza riposo. Anche se non sono lacrime vere, basta solo mimare le smorfie del volto, stringere palpebre, chinare il capo, (fateci caso: il piangere o il ridere impiegano gli stessi muscoli facciali, stesse espressioni) e se poi, si aggiunge una sonora soffiata di naso, la recita supera ogni diffidenza e tutti collaborano, ciascuno in proprio, al piagnisteo generalizzato, come una purga simbolica. Lo scopo della trasmissione è raggiunto e l’utente viene risarcito con la compassione in diretta. Non importa l’argomento che comunque è scelto tra i più tristi, tribolati, infausti. Tutti gli attori, presentatrice compresa, paiono aver pianto per ciascuno di noi: il reality show partecipato da casa! Si sa che le lacrime sono ricercate più del petrolio, sono divenute una sorta di carburante per alimentare la macchina delle emozioni artificiali: lacrime come farmaco della solitudine volontaria da cui una platea salottiera, divenuta vecchia ed usurata, trova momentaneo sollievo, attimi di finto conforto. Mi chiedo se sia più facile piangere di fronte alla morte di Lady D. in mondovisione piuttosto per il mendicante che alla domenica staziona di fronte alla parrocchia: domande retoriche perché la risposta è scritta nei nostri cuori.  Mi dimenticavo, infatti, di aggiungere che le lacrime autentiche escono dal cuore, non dagli occhi; sono queste lacrime silenziose, nascoste, celate dai muri delle nostre abitazioni, dentro cui finalmente possiamo abbandonarci al vero pianto senza timore che qualcuno ci senta e al quale non ci abituiamo mai.
MASSIMO CAPACCIOLA

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