
autocoscienza, quello della vergogna è certamente il più fragile, il prototipo di un’insostenibile instabilità, quello che da solo potrebbe sgretolare l’impassibilità di una maschera, imposta come estrema difesa contro l’ineluttabile, maligno senso di colpa. Impossibile non ricordare l’origine antropologica del vergognarsi: i primi capitoli della Bibbia (Genesi) illustrano con brevi e fulminanti strofe, la vergogna di Adamo ed Eva quando si scoprirono nudi e pertanto provarono vergogna, nascondendosi alla vista di Jahvè.
Grande il loro tradimento e altrettanto grande il turbamento. Consapevolezza assoluta di aver sbagliato, la vergogna si costituisce tuttavia come corpo unico, baluardo vitale e salutare, insieme alla suscettibilità. Un muro di impenetrabile ostilità s’impadronisce di noi, per non cadere vittime, prima che degli altri, di noi stessi, della nostra fastidiosa indiscrezione. Infatti la vergogna si cementifica, al fondo della autocoscienza, nel tentativo di impedirci di esporci a rovinose condanne. Guai a quegli occhi che ci vedono troppo colpevoli! Il più delle volte, infatti, il fondamento della vergogna non consiste nell’evidenza di un grossolano nostro errore, quanto piuttosto che questo errore sia visibile a tutti, che la nostra umiliazione sia esibita senza mediazioni. Il ghigno del nostro nemico è il fallimento della nostra volontà. Allora non resta che la fuga; non penso ad una ritirata strategica con cui ribadire il nostro debole senso di giustizia, ma ad una fuga verso una solitudine silenziosa, capace di ritemprare un ego sovrabbondante ma lesionato e di ricondurre la nostra passione di vivere verso nuove sfide. La vergogna ha necessità di silenzio; niente riparerà la ferita, sarà una ferita sanguinante e nascosta per
sempre, tuttavia avremo sempre la risorsa di rivendicare il diritto all’orgoglio. Poca cosa, direte; forse, ma sempre meglio una vergogna riparata che vergognarsi della vergogna. Occorre vedere in ogni cosa che accade, ivi compreso lo scacco, l’umiliazione, la sventura, materiale prezioso per la nostra arte, da cui trarre profitto. L’arte di vergognarsi non è segno di un insuccesso rammendato grossolanamente ed il disonore che ci assale come un nemico devastante, non rappresenta la capitolazione della nostra fede, è solo mediocrità, inutile nasconderlo, ma è un’arte della sopravvivenza che ci viene chiesto di affinare, per sublimare il dolore della sconfitta e per non coprirci di ridicolo.
MASSIMO CAPACCIOLA
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