Chi preferisce un panorama ad una chiesa non sa cosa sia un panorama né una chiesa.
Più che dai ragionamenti, l’intelligenza dell’uomo si lascia guidare da impressioni, suggestioni, attrazioni epidermiche: come altro definire la predilezione dilagante, nella ricorrenza della festa del Natale di Gesù (e non di babbo Natale!), dell’abitudine di addobbare un abete, vero o posticcio, al posto del presepe?
Sembra che l’uomo abbia camminato invano nel percorso che conduce verso lo sviluppo della civiltà; dopo la consapevolezza di essere un prediletto della creazione, preferisce tornare al punto di partenza, ai primordi della storia quando bastava un albero per farlo inginocchiare pervaso dall’ammirazione e soggiogato dalla sua maestosità. L’albero di Natale è divenuto ormai il simbolo fantasioso ma crudo di un paganesimo consumistico che promette estraniamento dalla memoria di un evento umano e divino, impedisce di pensare all’eternità e soprattutto allevia il dolore del male interiore. Albero come metafora di una natura matrigna, crudele a volte ma sempre prevedibile, natura selvaggia ma venerata come ogni culto di sé.
Al rimedio che cura viene preferito un temporaneo sollievo che aggrava e ritarda la guarigione. Il rimedio, nella nostra civiltà dell’immagine, consiste nel rivivere visivamente con gli occhi della ragione e con quelli del cuore, l’inizio della nostra storia: Bethlemme di Palestina. L’albero dimentica, nasconde, scolora, cancella la pietà di una grotta, la gioia dei pastori, la fedeltà di un bue, la pazienza di un asino, il calore della paglia, il timore delle greggi, la meraviglia attonita dei genitori, la prodigalità dei magi, la partecipazione viva di una natura, quella sì, benevola, invitante, corale. Ma si preferisce comunque un albero che perderà le proprie foglie spinose prima di essere gettato nell’immondizia, quale segno di un’illusione, di una trasgressione motivata solo dal peso intollerabile della propria coscienza.
Scegliere l’abete o il presepe è il dilemma di una difficile conciliazione tra chi non sa più come si crede e chi sa come si dubita; allora si decide per approntare l’uno sotto l’altro, in una sorta di sintesi delle nostre contraddizioni. La provvidenza intanto, procedendo con ironia e sempre sottotraccia, tra regali, giochi e cenoni vari, istruisce l’uomo talora prendendolo in giro e talaltra punendone gli scrupoli e le insolenze.
Ma non sarebbe meglio, mi chiedo con sfrontatezza, non perdere tempo con il presepe né con l’albero e dedicarsi alla disinvolta superficialità del disimpegno spirituale e ad una fuga dall’impaccio religioso, negando l’avvenimento, dando per scontato che il passato, la storia, la nostra, sia priva d’importanza? Purtroppo per noi, negando la trascendenza, la storia si suicida e noi con essa.
MASSIMO CAPACCIOLA
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