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Mare, sole, archeologia, e rivivi l’antico fascino di Selinunte

3 Maggio 2012

di Roberta Capodicasa

Selinunte, la più occidentale delle colonie greche di Sicilia fu fondata, stando a Tucidide, da Megara Iblea circa cento anni dopo la sua madrepatria nel 628/27 a. C.. La storiografia attuale tende, però, a rialzare la data di fondazione di circa un trentennio e a preferire la data proposta da Diodoro Siculo cioè il 650/1 a.C.. Questa data parrebbe anche più coerente con la documentazione archeologica in nostro possesso. L’area archeologica della polis è forse la più affascinante da me visitate in Sicilia grazie allo straordinario connubio del sito antico col mare ad esso prospiciente; si potrebbe quasi dire che la polis sembra uscire dal mare per adagiarsi mollemente sulla costa. Qualcuno l’ha chiamata città degli dei per il gran numero di templi ivi presente, per il suo mare azzurro e i suoi cieli limpidi. Il nome deriva da quello di un prezzemolo aromatico molto diffuso nell’ area, così tanto da essere rappresentato anche sulle monete antiche. I primi fondatori di Selinunte, come abbiamo già spiegato nella scheda relativa a Megara Iblea, provenivano dalla costa est della Sicilia. Si spinsero diametralmente quasi all’opposto del triangolo siceliota probabilmente alla ricerca di terre coltivabili non certo reperibili nel sito della madrepatria tra Catania e Siracusa. Trovarono nell’area popolazioni indigene ed una forte realtà punica con la quale la polis ebbe sempre a confrontarsi e scontrarsi per preferire, infine, una politica filo -cartaginese che la caratterizzerà sempre. Tentò di fondare sub-colonie come Eraclea Minoa ma, nonostante l’accortezza della sua politica, ebbe vita breve. Il suo splendido sviluppo economico e demografico ebbe fine dopo soli duecento anni, anni in cui vide un rapido sviluppo anche territoriale, fino ai confini della chora di Segesta a nord e fino al limitare del territorio di Agrigento ad est, e ad ovest in corrispondenza dell’odierna Mazara del Vallo.

In questo periodo di fioritura, VI secolo, dominerà la città una tirannide intraprendente che porterà avanti all’interno della polis, una politica di espansione architettonica cui si devono le grandi realizzazioni templari che resero monumentale il suo aspetto. Nel V sec. a. C. la città fu coinvolta in numerosi scontri con Segesta uno dei quali fu alla base dell’intervento ateniese in Sicilia: il molteplice intreccio delle vie della Storia comportò un tradimento da parte dell’antica alleata Cartagine nei confronti di Selinunte che capitolò dopo nove giorni di coraggiosa resistenza, nelle mani dell’ amica-nemica fenicia.

Dopo la sconfitta cartaginese della prima guerra punica nel 250 a.C., la popolazione fu trasferita dai Romani a Lilibeo ed il sito rimase deserto fino ai nostri giorni. Tale abbandono consente attualmente la possibilità di studio unica nel suo genere di una città greca antica le cui strutture appaiono meravigliosamente conservate. Il pur necessariamente brevissimo resoconto storico, consente di approcciarci a questo particolare sito archeologico consapevoli del ruolo giocato da una città greca di confine: proprio in forza di certe scelte storiche, si trovò a vivere in territorio nemico gestendo una politica lungimirante che la farà risplendere per il fascino delle sue strutture visibili ancora agli occhi di un contemporaneo, in quello che uno dei parchi archeologici più belli del mondo. La Sicilia può così ancora una volta vantarsi quale conservatrice di una memoria del passato unica.  Quest’ultima carta che riporta la ricostruzione di quella che doveva essere la polis antica, aiuta un potenziale visitatore a muovere i passi in un territorio pieno di sorprese per chi desideri andare oltre i ‘ruderi’. La visita di un sito archeologico antico, infatti, non è un affare di poco conto: necessita di una grande volontà di sapere. Aristotele diceva che ogni uomo per natura e desideroso di sapere. Visitare uno scavo è come andare in palestra: chi vuole davvero allenarsi sa che c’è bisogno di un sacrificio. Così è la storia approcciata tramite la maggiore delle sue basi documentarie che è l’archeologia: armati di una buona guida e di tanta voglia di conoscere, Selinunte potrà offrire una palestra elegante e completa. Per ora finisce qui la nostra passeggiata tra i templi greci di Selinunte, sperando di tornare presto a visitarla, a bere il suo mare azzurro, a respirare i suoi cieli limpidi.

 

Megara Iblea, la civiltà greca e arcaica che diede origine alla meravigliosa Selinunte

10 febbraio 2012

di Roberta Capodicasa

Il viaggio potrebbe dal punto in cui siamo arrivati scendere dolcemente a Sud, verso Selinunte ma proprio questa intenzione costringe a tornare per un momento sulla costa Est della Sicilia, a Megara Iblea, polis che fu la fondatrice della meravigliosa Selinunte. La costa orientale della Sicilia come abbiamo detto, fu quasi naturalmente investita dalla colonizzazione greca. Era infatti l’area immediatamente raggiungibile dalla Grecia, naturale punto di approdo in vista dello stretto di Messina e quindi del mar Tirreno. Era questa la rotta già percorsa dai Micenei e ripercorsa poi dai colonizzatori di VIII ca.. Non è un caso che tutta quest’area denominata ‘Etnea’, fosse sede dei Ciclopi e dei Lestrigoni, noti personaggi dei poemi omerici e di molte avventure dell’Eroe occidentale per eccellenza, Eracle. La fertilità delle pianure ivi presenti diede vita anche allo stanziamento delle colonie storiche di insediamento tra le quali appunto Megara Iblea fondata dopo una serie di traversie da coloni di Megara Nisea, polis collocata a metà strada tra Corinto ed Atene.

Circa alla stessa epoca anche Lamide venne in Sicilia, conducendo una colonia da Megara, e sopra il fiume Pantacia fondò una città dal nome Trotilo; più tardi andò da lì a Leontini e si associò in una comunità politica coi Calcidesi per un po’ di tempo; da essi fu scacciato e dopo aver fondato Tapso morì, mentre gli altri, costretti a partire da Tapso , fondarono Megara, detta Iblea, dopo che Iblone, un re siculo, aveva consegnato loro il territorio e li aveva condotti a quel luogo (750 a.C.ca.). Dopo avervi abitato per duecento quarantacinque anni, furono espulsi dalla città e dal territorio da Gelone, tiranno dei Siracusani. Ma prima di essere scacciati, cento anni dopo aver istituito la colonia di Megara stessa, avevano fondato Selinunte (628 a.C. ca.), inviandovi Pammmilo…

Questo il racconto dalle parole del nostro compagno di viaggio lo storico antico Tucidide., racconto che si mostra incerto e lacunoso. Quello che ci interessa è però la collocazione della polis nel lembo di terra settentrionale del golfo di Augusta, un terreno ad essi ceduto dal re siculo di Ibla, Iblone da cui deriva chiaramente il nome della polis.

Il sito che ci apprestiamo ad esaminare costituisce un caso emblematico per lo studio di una città di epoca arcaica. Lo scavo iniziato già nell’Ottocento è stato ripreso in modo sistematico solo nel dopoguerra ad opera della scuola francese facene capo a Vallet e Villard.

Gli scavi oltre a fornire dati di estremo interesse per lo studio della città greca in epoca arcaica, ha permesso di ritagliare un’oasi archeologica nell’area presa d’assalto ai nostri giorni dagli impianti industriali delle raffinerie sulla costa tra Augusta e Siracusa. Il piccolo angolo straordinariamente antico degli scavi è ritagliato, infatti, “tra le straordinariamente moderne raffinerie … pensiamo che ci sono forse ancora parti della necropoli (?) sottostanti agli edifici amministrativi di una delle 7 Sorelle che le giacciono placidamente sopra . *
Il sito è di difficile reperimento anche perché le indicazioni sulla strada, almeno quando andai io a visitarla, non sono facilmente rintracciabili, ma avere pazienza e perseverare nella ricerca permette di visitare una città greca arcaica che dovette essere di grande rilievo se appena un secolo dopo la sua fondazione, fu promotrice della felice fondazione di Selinunte nella parte orientale dell’isola. In seguito la guerra contro Gelone, tiranno di Siracusa, le fu fatale e la città fu rasa completamente al suolo: era l’anno 483 a.C.. Il tiranno divise la popolazione in due gruppi: i ricchi, chiamati grassi da Erodoto, che furono trasferiti a Siracusa ed integrati nel corpo civico, gli altri che furono resi schiavi e venduti benché non fossero i responsabili del conflitto. La città nel 415 a.C. era ancora deserta come ricorda Tucidide e sarà nuovamente occupata solo nel 340 ad opera di Timoleonte per subire poi, di lì a poco, un identico destino da parte dei Romani nel 214 a.C.. Come abbiamo accennato, la cattiva stella di Megara Iblea continuerà fino ai nostri giorni ma l’opportunità di visitare lo scavo andrebbe davvero tentata: sarà così possibile accedere direttamente alla visita delle splendide strutture dell’ VIII e VII sec. a.C. e al piccolo Antiquarium. Si potrà conoscere così l’insediamento che si articola su un pianoro alto appena 20 metri sul livello del mare che è ad esso prospiciente sul versante est. Il sito è d’altra parte limitato a Nord e Sud dalla valle del Cantera. L’area da visitare si presenta, dunque, assolutamente pianeggiante priva di un’acropoli e circondata da imponenti mura ma non tali da proteggere la polis dai vari assalti subiti nel corso del tempo. E’ possibile conoscere de visu le case degli antichi abitanti ed entrare nel loro habitat. Lo spazio abitativo era infatti diviso in due lotti: privato (lotti di terra con le case) e pubblico (aree religiose civili e strade). Ogni lotto, isolato dai primi cittadini, era di ca. 12 m. e le case ivi costruite presentavano una superficie abitativa di non più di 15-20 mq e uno spazio antistante con funzione di orto pari a 100-120 mq. Nel corso degli anni la superficie abitativa delle case si doterà di un altro piccolo locale tanto da avere tre piccoli ambienti allineati con apertura a sud verso il cortile.

Fin dal 1948 lo scavo della missione archeologica francese ha messo in luce l’impianto urbano di tutta la zona dell’agorà. L’area si articolava secondo tre assi principali, due in direzione est/ovest e uno nord/sud. Queste strade principali che tagliavano i nuclei abitativi avevano una larghezza dai 5 ai 6 metri.

Ricordo delle strade regolari che mi fecero impressione per la loro precisione e degli spazi abitativi altrettanto ammirevoli per la loro uniformità.

La città sembrava proclamare ancora la sua esistenza nonostante i terribili colpi subiti dalle alterne vicende storiche che l’avevano colpita.

Ricordo bene il mare su cui sembrava affacciarsi con le piccole case e le strade su cui si poteva camminare ancora seguendo tragitti antichi.

Mi ricordo dell’antiquarium e dei nomi dei grandissimi archeologi francesi Georges Vallet e Francois Villard che tanto fecero nella seconda metà del Novecento per riportare alla luce questo splendido sito greco che sembrava non dover mai cessare la sua lotta per la sopravvivenza, mutatis mutandis ancora di più nei nostri civili e modernissimi tempi.

I personaggi che incontrai furono anche essi tremendamente percepibili nella loro ‘lontana vicinanza’: una figura di donna che allattava due bambini e la statua funeraria di un medico, le due celebri sculture provenienti dalle necropoli di Megara, attualmente nello splendido Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa.

Le due statue colpirono moltissimo la mia fantasia: la prima era una statua funeraria di un kouros del colore della carne viva che mi gridava la giovinezza e la morte precoce del personaggio raffigurato, un medico, come dichiarava la frase incisa in caratteri greci sulla coscia; voleva indicare la sua qualifica e la sua generalità, medico Sombrotidas figlio di Mandrokles. La seconda, una statua di circa la metà del VI sec. a.C., che stringeva in un abbraccio affettuoso due fanciulli, pareva conscia della storia pesante vissuta dagli uomini e dalla città che l’aveva ospitata e gridava nonostante tutto con quell’abbraccio, la sua arcaica tenerezza.

Ho voluto e dovuto tornare indietro e fermarmi in particolare su questo sito perché è tanto importante e tanto poco conosciuto anche se ha una storia interessantissima sia nell’antichità che nel presente, perchè è stato amato e scavato da studiosi che stimo moltissimo per la tenacia e la caparbietà e cui devo importanti frammenti del mio vario e vago interesse per la Storia.

Sanità: Nuove speranze per la cura delle nevralgie del trigemino anche dovute alla placca della sclerosi multipla

20 dicembre 2011

Arrivano come un regalo di Natale le notizie da me apprese direttamente a Milano riguardo alle straordinarie potenzialità del Robot usato dal Dott. Pantaleo Romanelli, il radio chirurgo che mi ha operato al CDI milanese lo scorso 15 dicembre. L’intervento, condotto su una nevralgia trigeminale dovuta ad una placca della Sclerosi Multipla, apre una nuova strada al trattamento di una patologia altamente invalidante. L’intervento é stato svolto dal Dott. Romanelli utilizzando la chirurgia robotica Cyberknife (coltello cibernetico), un robot che invia sottilissimi fasci di radiazioni sullo specifico bersaglio da trattare e precedentemente individuato con le più moderne tecniche di analisi diagnostica per immagini capaci di fornire una precisione millimetrica e riducendo, così, incredibilmente i rischi. Il dott. Romanelli, formatosi negli Usa presso Università di Stanford, nel cuore della Sylicon Valley in California, ha lavorato in qualità di Clinical Assistant Professor nel Dipartimento di Neurochirurgia dove ha personalmente partecipato allo sviluppo del Cyber knife inventato dal Prof John Adler. Esperto, dunque, in radio chirurgia da molti anni, è coinvolto in numerosi studi internazionali anche per affrontare il trattamento delle cefalee a grappolo e, come detto sopra, le nevralgie trigeminali, oltre ad altre numerose e invalidanti malattie legate a disturbi del movimento come il Parkinson, il tremore essenziale e le distonie, dolore neuropatico, epilessia, disturbi psichiatrici come la depressione ed il disturbo ossessivo-compulsivo. Le nuove vie che si aprono dinanzi a questo valido Robot-Cyber knife sono davvero straordinarie e molteplici. Il Robot era stato, infatti, inizialmente utilizzato per la cura dei tumori al cervello e se prima erano limitati i suoi campi di intervento, grazie agli studi molteplici che si stanno conducendo, oggi la sfera d’azione si sta allargando .

Roberta Capodicasa

Erice e Segesta, dalla storia antica e le scienze moderne lo sguardo verso il mondo

27 novembre 2011
Erice, panorama su Trapani e sulle isole Egadi dal Castello di Venere. foto da www.globopix.net

Erice, panorama su Trapani e sulle isole Egadi dal Castello di Venere http://www.globopix.net

di Roberta Capodicasa

Mentre avveniva la conquista di Ilio, alcuni dei Troiani sfuggirono agli Achei; con le loro imbarcazioni arrivarono in Sicilia; poi si stabilirono ai confini coi Sicani e tutti quanti furono chiamati Elimi, mentre le loro città ebbero il nome di Erice e Segesta. Insieme a loro si stabilirono anche i Focesi, che tornando allora da Troia erano stati spinti da una tempesta prima in Libia e poi di lì in Sicilia.

Impossibile trovandosi in quest’area non gettare lo sguardo sull’antico popolo degli Elimi e sui luoghi in cui visse. Di essi vale la pena visitare i siti per la imponenza affascinante ed unica del

tempio di Segesta

paesaggio. Il tempio di Segesta e il teatro, ad esempio, entrambi di incomparabile bellezza, sono in una posizione panoramica eccezionale che, come la rupe di Erice, si collocano in località senza uguali in quanto a suggestione. Ma lasciamoci condurre ancora una volta da un ormai carissimo amico, lo storico antico Tucidide. Degli Elimi Tucidide ci da una localizzazione piuttosto vaga, benché per ben due volte nella Archaiologhia egli faccia cenno alla loro realtà; una prima volta per ricordare che «dopo la caduta di Ilio un gruppo di Troiani fuggendo gli Achei giunse sulle navi alle coste della Sicilia ed essendosi stabiliti “omoroi tois Sikanois`” tutti insieme furono chiamati Elimi, mentre le loro città sono denominate Erice e Segesta»; una seconda volta lo storico ne parla in relazione ai Phoinikes che «quando i Greci giunsero in molti, abbandonate quasi tutte le coste e raccoltosi in vicinanza degli Elimi, si tennero Mozia, Solunto e Panormos».

Erice, Castello di Venere

Alla indeterminatezza delle fonti letterarie si accompagna, però, la peculiarità dei resti archeologici, basti pensare alla isolata collocazione del massiccio tempio dorico di Segesta: esso rimane appartato, fuori della città sulla cima di una montagna che svetta per poi precipitarsi su uno spazio vuoto. Il tutto è circondato da una geografia dalle forme grandiose e imponenti. Il paesaggio di questi luoghi e l’ altitudine dei siti è quello che indubbiamente di più si fissa nella memoria, capace di riaffiorare anche a distanza di anni.

Segesta fu città ricca e potente frequentemente in lotta con Selinunte, la splendida polis greca, colonia di Megara Iblea di cui parleremo più avanti. Fu da questo contrasto che Atene coglierà l’occasione per entrare nel conflitto disastroso del 415-413 a.C..

Di essa ricordiamo, come abbiamo già notato, il teatro collocato sulle pendici settentrionali di Monte Barbaro, complesso ben conservato del periodo tra IV e III sec. a.C., esempio eloquente del passaggio dal teatro greco al teatro romano.

tempio di Selinunte

E il tempio è comunque il più celebrato monumento segestano trovandosi in una speciale simbiosi col paesaggio a causa della sua posizione che anche M. Torelli definisce giustamente, ‘fortemente enfatica’. La struttura dorica del tempio, lasciata incompiuta e le sue colonne mastodontiche, hanno costituito sempre un argomento allettante di studio per gli archeologi e di meraviglia per i visitatori. Quando arrivammo non c’era nessuno, il silenzio dominava la vallata, un profumo intenso di terra e fiori impregnava l’aria, il vento solo ci passava discreto accanto senza osare disturbare il nostro ‘religioso’ silenzio. La bellezza di questo luogo è assoluta, la sua memoria prepotente.

Erice, o “U Munti”, in siciliano, trovandosi a 756 metri s.l.m. sulla pianura costiera su cui giace Trapani, è città elima di particolare interesse in forza della sua storia mitologica e le sue vicende politiche. Sarebbe stata fondata da Erix figlio di Afrodite e del re Butes. A questo si deve il famoso santuario di Venere Ericina che si ergeva sulla rocca sovrastante. Erice fu oggetto di contesa per tutta l’età arcaica tra Greci e Cartaginesi i quali nel 260 a.C. la rasero al suolo e ne trasferirono gli abitanti a Drepanon (attuale Trapani), il porto, dove da allora fu fondata la città omonima, una delle più importanti basi navali dei Fenici. Nel 248 compaiono, però, sulla scena della storia locale i Romani che ingaggiarono una lotta spesso svoltasi sul monte stesso di Erice. Alla fine come sappiamo i Romani ebbero la meglio e conquistarono tutta la Sicilia Occidentale (241 a.C.).

Il santuario di Venere Ericina che qui si trovava, a causa della presunta discendenza dei conquistatori dai Troiani, diverrà un luogo di culto particolare, basti pensare addirittura che Enea ne verrà considerato il vero fondatore: i Romani trovano così una splendida giustificazione del loro intervento nell’area in occasione della prima Guerra Punica!

Del santuario archeologicamente non v’è più traccia. Rimane imponente la cinta di mura megalitiche, un tratto delle quali è detto ‘muro di Dedalo’ come riferisce una tradizione facente capo a Diodoro Siculo per cui presso Erice esisteva una roccia a picco così alta, che le costruzioni circostanti il tempio di Venere minacciavano di finire nel precipizio. Dedalo consolidò queste costruzioni, circondò la roccia con un muro e ne allargò la sommità in modo mirabile’.

Dalle fonti letterarie e dalle monete possiamo, dunque, supplire al vuoto lasciato dall’archeologia e ricostruire in parte questo santuario di cui oggi non rimane traccia ma che in antico fu di grande rilevanza, specie in età romana quando gli uomini politici venivano ad Erice e si intrattenevano in allegri godimenti con le donne. Diodoro si riferisce certamente all’istituto della prostituzione sacra che era qui senz’altro praticato. In età imperiale il santuario gradatamente decadde fino ad essere inglobato nella mastodontica struttura normanna, il castello di Venere, il cui nome tradisce il suo stretto collegamento con l’antichità.

Antonio Zichichi

Da qui comincia la storia della splendida città medievale che è particolarmente suggestiva per i meandri di viuzze e per l’altitudine che offre panorami mozzafiato. Le straordinarie vedute che la città offre mi portano a ricordare che dal 1963 Erice è sede del Centro culturale di cultura scientifica Ettore Majorana istituito per iniziativa del celebre scienziato siciliano Professor Antonino Zichichi quasi che le ampie vedute che da qui si aprono abbiano naturalmente condotto alle ancora più ampie prospettive che la ricerca scientifica offre.

Con tutto questo salire e scendere, sia nel tempo che nello spazio, alla fine io e il mio amatissimo fidanzato siciliano che, a suo dire, aveva trascorso le sue estati dell’infanzia in questo luogo divino, precipitammo in un ristorante dove ricordo una pasta straordinaria a rifocillare gli stanchi viandanti: Busiata con pesto alla trapanese, una crema di mandorle aglio, pomodoro e basilico indimenticabile. Il vino era un rosso Inzolia.

Ohi moi mi verrebbe da dire e sospirare! Per non morire allora di nostalgia è meglio che lasciamo qui il racconto, sottolineando l’etimologia della parola ‘nostalgia’ che venendo dal greco significa ‘dolore (algos) dovuto al desiderio del ritorno (nostos)’, quello che assolutamente mi prendeva nel preciso momento in cui scrivevo.

 

 

Isola di Mozia, Kouros e il santuario fenicio-punico “Il Cappiddazzu” ad un km da Marsala in Sicilia

30 ottobre 2011

Kouros o Giovinetto di Mozia

di Roberta Capodicasa

Mozia, Motye in greco, Mtwe (filanda?) in fenicio, è una piccola isola dinanzi alle saline dello Stagnone di Marsala. D’improvviso veniamo a trovarci dopo essere stati a Taormina-Naxos, come d’incanto, sulla costa occidentale della Sicilia, potremmo dire nel suo angolo più ad ovest che coincideva in antico con capo Lilibeo. Abbiamo a questo punto percorso da Taormina tutto il fianco nord del trilatero che stabilisce il lato nord dell’isola stessa definita col nome greco di Trinacria (tria-akrai), cioè terra con tre promontori (Pachino. Peloro e Lilibeo) e forma triangolare. Abbiamo abbandonato così le colonie greche della costa est per avventurarci in territorio prettamente Fenicio. Fino ad alcuni anni fa si pensava che la presenza fenicia nel mediterraneo e quindi in Sicilia, si potesse ragionevolmente porre tra la fine del XII secolo a.C.  e il secolo seguente, sulla scorta di vari dati e considerazioni cui brevemente accenno: il dato più interessante che costituisce il punto di partenza è il noto passo (dell’immancabile!!!) Tucidide che qui ritengo di riportare per la sua grande importanza:  “Abitarono poi anche i Fenici tutte le coste della Sicilia, avendo occupato il promontorio sul mare e le isolette vicine, a causa del commercio coi Siculi. Ma quando poi gli Elleni in gran numero vi giunsero dal mare, lasciata la maggior parte dell’isola abitarono a Mozia, Soloenta e Panormo, vicino agli Elimi, avendole confederate e confidando nell’alleanza degli Elimi e perchè da quel punto, Cartagine dista dalla Sicilia di una brevissima navigazione” (Vincenzo Tusa 1988)”.

La casa dei mosaici

Sarebbe bello esaminare attentamente in chiave storiografica questo passo interessante da molteplici punti di vista ma dobbiamo procedere per giungere al nostro isolotto, 45 ettari appena, denominato anche San Pantaleo. Mozia dista appena un chilometro dalla costa. Le testimonianze più antiche provengono dagli scavi eseguiti nei primi anni del 1900 dall’inglese J. Whitaker che, per non avere intralci sul lavoro, vide bene di comprarsi tutta l’isola. Fu anche merito suo la produzione del celebre vino Marsala tipico dell’isola che Whitaker vide bene di produrre oltre che dedicarsi all’archeologia. Fu egli a scoprire le prime necropoli fenicie di Mozia e ad avviare quegli scavi che arrivarono nel corso del Novecento ad identificare Mozia come un luogo di altissimo interesse archeologico soprattutto per la sua fase di maggiore splendore quella cioè di VI e V secolo a.C.: gli scavi attestano infatti che il sito fu poi distrutto nel 397 a. C. e mai più ricostruito. I reperti sono conservati nel Museo Whitaker alloggiato al pianterreno della villa che appartenne all’omonimo proprietario. Era questo il luogo in cui personalmente aspiravo vivamente ad entrare la prima volta che mi recai nell’isola. Il motivo era

Imbarcadero per Mozia

vedere quella che considero una delle statue più belle conservateci dall’antichità, il kouros, un ‘giovane’ con una veste insolita: un chitone con sette pieghe di stoffa, abito sottile e insieme ampio, che cinge completamente il corpo atletico della statua secondo la tipologia dello Stile Severo in cui è realizzata. Le pieghe dell’abito sembra che ondeggino in forza del movimento appena accennato che il corpo, in un gioco di onde e di veli che creano una atmosfera molto sensuale, sembra compiere: come dice uno studioso di nome Falsone, “Si ha l’impressione che lo scultore avesse voluto ritrarre un nudo e che sia stato costretto a vestirlo!!!” . La statua è certamente un originale greco della prima metà del V secolo opera di un grandissimo maestro forse ateniese. Si tratta probabilmente di un atleta olimpico punico di cui la statua funeraria celebra la memoria? I discorsi degli studiosi sono sempre aperti a nuove e stimolanti interpretazioni che non arrivano mai a nulla di definitivo lasciando dunque il kouros e la sua storia mitica. Appeso tra Grecia e Sicilia, il suo fascino misterioso si conserva nelle sale di un piccolo museo di una piccola isola fenicia. Per quanto mi riguarda io credo che si tratti davvero di un atleta olimpico vincitore di una gara alle antiche olimpiadi visto l’episodio singolare che mi capitò quando andai a vederlo per la prima volta nell’Agosto 2004.

Appena sbarcata col traghetto dalla terraferma mi recai di corsa, si fa per dire!, all’ingresso del Museo. Si può dire che quasi non parlai con il bigliettaio, una bella signora forse nord europea, che mi vide andare di fretta, ma proprio di fretta! Entrai nella sala dove mi aspettavo di incontrare il kouros girando una sorta di angolo e…la stauta non c’era! Cosa poteva essere successo? Ero confusa e disorientata. La portinaia mi raggiunse in persona e, con fare dispiaciuto, mi disse a bassa voce: “Il Kouros è stato portato ad Atene in occasione delle Olimpiadi, mi dispiace, mi dispiace davvero”. Per alcuni secondi  stentai a crederlo. Peccato però!

Fu una delle mie più cocenti delusioni dell’età adulta.

Santuario del Cappiddazzu

Nota:L’accesso all’isola è consentito solo da due imbarcaderi privati, che oltre a collegare la stessa Mozia alla terraferma permettono di visitare anche le altre isole dello Stagnone. L’isola appartiene alla Fondazione Whitaker, e benché sia aperta al pubblico e visitabile durante gli orari di apertura, è in vigore il divieto di sbarco non autorizzato. Nell’antichità una strada collegava la terraferma all’isola tra Capo San Teodoro e l’estrema punta moziese settentrionale: oggi la stessa via risulta sommersa dal mare.

Da visitare all’interno delle mura, il “Santuario del Cappiddazzu”  (in siciliano “cappello largo”) a poca distanza dalla Porta Nord.

Naxos-Tauromenion, emozioni oltre la barriera del tempo

13 ottobre 2011

di Roberta Capodicasa

Proprio a ridosso della strada che s’affaccia sulla splendida e famosa  spiaggia di Giardini Naxos, (Giaddini  in siciliano) frequentata da  numerosi  turisti, si trova lo scavo di Naxos una delle colonie greche più  antiche di Sicilia. Lo scavo, a quanto mi ricordo, è così bene nascosto a sguardi troppo  indifferenti al passato da rendere del tutto probabile la  permanenza a  Giardini per una vacanza e non rendersi neanche conto di trovarsi nei pressi di  uno scavo di straordinario rilievo.

porta di Apollo

Si comincia  la visita da un piccolo Antiquarium all’interno di una struttura  borbonica a Capo Schisò; da qui è possibile orientarsi sull’area archeologica  vera e propria. Mi rendo perfettamente conto a questo punto del bisogno sempre  più necessario di spiegare  la grande rilevanza che dò a questa località, il  motivo affettivo che ad essa mi lega. Ricordo chiaramente che fu uno dei miei
momenti più emozionanti  in Sicilia,  l’accorgermi all’improvviso, girato  l’angolo oltre la splendida e mondana spiaggia di Giardini Naxos , di trovarmi  su uno scavo greco arcaico; d’incanto  la confusione era cessata, lo spazio si era  come dilatato, il silenzio dominava le cose. Mi sembrò di aver superato, senza  accorgermene, la barriera del tempo.  Nasso  fu la prima colonia greca di Sicilia, se vogliamo prestar fede a   Tucidide, e numerosi autori tramandano di Teocle calcidese che insieme ad  alcuni Ioni di Nasso, l’omonima isola delle Cicladi,  avrebbe occupato l’area di Capo Schisò sottraendola probabilmente a degli indigeni Siculi. Il sito dove  sarebbe sorta Naxos doveva essere un approdo sicuro  ed obbligato per le navi  che facevano

panorama Giardini Naxos - Taormina

rotta verso Occidente dal Mediterraneo Orientale. I primi coloni  sarebbero arrivati su una spiaggia dove eressero un tempio ad Apollo  Archeghetes il dio di Delo protettore dell’impresa coloniale, nell’anno 754 a. C.: anche questo riferimento a Delo ci riporta all’area delle Cicladi da cui proveniva il nucleo forte dei coloni, considerato anche il nome dato al sito e  mutuato probabilmente dalla omonima isola dell’Egeo, Nasso. Dai pochi dati che  abbiamo risulta che la polis fu partecipe degli eventi politico economico  militari che riguardarono la costa est della Sicilia per tutta l’età arcaica e  si trovò spesso in lotta con Siracusa. Le guerre intestine caratteristiche del  mondo greco la videro completamente distrutta da Dionigi, il celebre tiranno  siracusano, nel 403 a. C.. Gli abitanti superstiti cercarono continuamente  di

Gelsomino

riprendere possesso della polis fino a che Andromaco, padre del grande storico  Timeo, non vide più opportuno abbandonare il sito di Nasso per preferire  quello  prospiciente di Tauromenion, la moderna Taormina, città gentilmente  appoggiata su una collina a 200 m. slm. da cui è possibile uno sguardo  meraviglioso sulla costa est della Sicilia fino all’Etna. Il dato d’eccellenza,  tra i molti, su cui ci soffermeremo  è l’essere stata celebre nell’antichità  per il rinomato vino di cui ci testimonia Plinio il Vecchio nella sua opera  Naturalis Historia  insieme alle monete su cui è spesso raffigurato il dio del  vino, Dioniso. Plinio famoso per la sua competenza in materia, prediligeva il vino ‘Taormina bianco’ prodotto con le antiche uve Catarratto bianco*,

grappolo uva catarratto

Carricante, Grillo, Inzolia e Minella bianca.  Tali testimonianze, consentono a questo punto di spendere qualche  insufficiente e certamente povera parola sul vino di Sicilia: il vino siciliano
potrebbe essere davvero confuso con un’ambrosia divina, direttamente donata da  Dioniso; le uve particolari, i raggi del sole cocente sotto cui i chicchi  maturano, il paesaggio caldo e mediterraneo che lo nutre, il suo profumo  impregnato di mare, con il retrogusto al sapore di mandorle,  gli conferiscono un carattere particolare che lo rendono inimitabile: non  riesco mai a decidere dinanzi ad un vino siciliano se mi affascini di più il  colore, il profumo o il sapore. La miscela dei tre è, comunque, un cocktail   prediletto tra le cose amabili di questo mondo e della Sicilia in particolare.

*Il catarratto, l’uva a bacca bianca più diffusa in Sicilia

Emozioni, ritmo, grande musica … come solo il jazz sa offrire.

16 luglio 2011

Dee Alexander

di Roberta Capodicasa

Mentre il  Festival rapidamente sta raggiungendo il suo termine e tra ventiquattro ore Perugia perderà d’improvviso il carattere di polis internazionale rivestito i questi giorni, è bello guardare indietro ad alcune  profonde emozioni che anche quest’anno Umbria Jazz ha trasmesso:  parlo dei ‘pochi’ concerti cui sono riuscita ad assistere.

Folgorante la voce della cantante jazz di Chicago  Dee Alexander  nella serata inaugurale al Santa Giuliana e ancora più emozionante l’esecuzione di Herbie Hancock, Wayne Shorter, Marcus Miller che,  in occasione del ventesimo

Chihiro Yamanaka

anniversario della morte di Miles Davis , hanno tenuto uno splendido concerto. Impossibile non fermarsi a spendere preziose parole per la pianista  giapponese Chihiro Yamanaka che nella stessa sera ha colmato l’Arena  di ritmi straordinari su una tecnica pianistica eccezionale,  così come ha ripetuto la sera successiva la sua connazionale Hiromi che anticipava il concerto del grande maestro del pianoforte Ahmad Jamal; entrambi hanno lasciato col fiato sospeso il pubblico amante del pianoforte-Jazz nella sicura certezza che

Branford Marsalis

con tali rappresentanti il Jazz non morirà mai!  La serata successiva del Santa Giuliana ha visto protagonista il sassofono di Branford Marsalis che ascoltavo, ahimè, per  la prima volta  e che mi ha lasciato letteralmente senza fiato  in un crescendo continuo di emozioni.

Si sono così concluse le mie serate Umbria Jazz all’ Arena visto che amo ascoltare, in occasione dl  festival del Jazz,  solo Jazz e che gli appuntamenti successivi ivi previsti, pur comprendendo grandissimi nomi, non erano dedicati a questa sonorità: ho fatto una eccezione per Liza Minelli che ha suscitato, nonostante tutto, la mia simpatia e la mia profonda tenerezza.  Sono cominciati ,dunque, per me i concerti che non prevedevano

Gabriele Mirabassi

grandissimi nomi, ma sicuramente grandissima musica; il primo grande meraviglioso è stato quello ‘round midnight del perugino Gabriele Mirabassi , un clarinetto che sembrava tutt’uno con colui che lo suonava, che si muoveva  danzando  e  ondeggiando  fino a cercare luoghi inaccessibili dell’anima come solo il jazz sa fare. Nonostante il caldo sentito nel teatro, questo è il concerto in assoluto più suggestivo cui ho assistito nell’edizione 2011 di Umbria Jazz e sono stata veramente fiera di avere un così grande concittadino; sì, perchè Gabriele Mirabassi è nato a Perugia e qui ha studiato la musica alimentandosi sicuramente anche al contesto eccezionale fornito ormai da anni da Umbria Jazz. Al di là della tecnica singolare e unica di Gabriele, non è possibile non spendere qualche parola per la piccola band di bravissimi giovani musicisti argentini che hanno suonato con lui: il jazz

anat cohen

come diceva in Inglese un esponente dell’European Jazz Ensamble, appartiene a tutti  i popoli. E su questo tono era anche ieri sera al Brufani Anat Cohen che,  ancora una volta con il  clarinetto, protagonista quest’anno di molti momenti  per me unici, ha saputo davvero emozionare un numero più ristretto di ascoltatori presenti nella sala Raffaello dell’Hotel. Tale tipo di concerti è effettivamente più intimo  e particolare e, se pure vale la pena ascoltarli tutti, è quello che riscontra il mio assoluto favore.

Smetto  di scrivere questa nota  amabile considerando che nelle prossime brevissime 24 ore avrò forse l’opportunità di ascoltare ancora dal vivo del Jazz  che,  se non si fosse capito, è la mia musica preferita. Ogni volta è un po’ un leggero e fluttuante ‘soffrire’ sapere che bisognerà aspettare un altro anno per ritrovare l’atmosfera unica trasmessa da Umbria Jazz.