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ARCHEOLOGIA A TERNI: NON C’ERANO I CELTI MA GLI UMBRI NAHARKI

27 novembre 2012

di Marina Antinori

La popolazione protostorica degli “Umbri Naharki” è stato l’argomento della trasmissione “Il Salotto Buono …di Sera” condotto da Livia Torre, andato in onda il 21 novembre alle ore 20,40 su Teleterni, visibile anche in web streaming. Ospiti in studio sono stati la dott.ssa Maria Cristina De Angelis della Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Umbria, la dott.ssa Marina Antinori, il dott. Stefano Ferrari, e Stefano Montori del Gruppo Speleologico delle Terre Arnolfe.

Gli argomenti trattati da parte dei rappresentati della Soprintendenza sono stati la necropoli delle (more…)

Sorbo selvatico o degli uccellatori (Sorbo aucuparia)

14 gennaio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche: è un albero di media grandezza (10-15 metri al massimo), le foglie sono variabili, perché esiste in diverse specie (montano, domestico, degli uccellatori), ma i fiori sono invariabilmente bianchi e profumatissimi, le bacche rosso corallo a forma di minuscole mele maturano a settembre, ma restano intatte fino ad inverno inoltrato e per questo il sorbo simboleggia la rinascita della luce dopo le tenebre del solstizio… un’aurora invernale!

Habitat: cresce nei boschi di latifoglie caldi, asciutti ed assolati dalla pianura alla fascia montana;

Proprietà: gli erboristi d’un tempo lo usavano contro le coliche, per l’elevato contenuto di acido malico, inoltre combatteva efficacemente lo scorbuto. Anche la corteccia, raccolta in primavera e seccata al sole, era usata come febbrifugo, antireumatico ed astringente. Oggi si usano soltanto i frutti.

Storia, mito, leggenda e magia: il suffisso “aucuparia” deriva dal termine latino “aucupio” ovvero uccellagione in quanto i cacciatori usano i frutti del Sorbo per attirare gli uccelli che ne sono ghiotti. Infatti, in autunno, il sorbo diventa meta di passeri, tordi e merli che vengono a “riempire” i loro stomaci.

Nell’alfabeto Ogham il sorbo è simbolo di rinascita e protezione contro la negatività. Aiuta contro gli attacchi magici e la negatività, l’invidia e la gelosia e protegge anche dalla paura. E’ utile per ricavare discernimento ed ispirazione per le nostre azioni. L’animale totemico a lui collegato è il MERLO. Conosciuto già in epoca romana e descritto da Plinio il sorbo è una pianta caratteristica dell’ambiente mediterraneo. E’considerato efficace contro gli spiriti del male, dice un antico proverbio: “sorbo selvatico e filo rosso fan correr le streghe a più non posso”.

Nella costruzione delle zangole si usava legno di sorbo per essere sicuri che fate e streghe non sorvegliassero il burro. I cavalli stregati si possono sempre domare con una frusta di sorbo. Il più efficace è considerato il sorbo volante, una pianta le cui radici non crescano nel terreno ma per esempio nelle spaccature di una roccia o sui rami di un altro albero.

Esso occupava un posto speciale negli oracoli dei druidi, impiegavano fuochi del suo legno per evocare spiriti che poi obbligavano a rispondere alle domande sparpagliando bacche di sorbo su pelli di toro appena scuoiati. Era conosciuta anche una forma di divinazione che interpretava il significato di rametti rovesciati su una pelle di toro ben tesa, da cui il detto irlandese “camminare sui rami della conoscenza” per significare che si è tentato il possibile per ottenere un’informazione.

Nel calendario dei Celti il Sorbo dava il nome al mese che andava dal 21 Gennaio al 17 Febbraio e che in gallese era chiamato “Cerdinene” oppure “Luis” in irlandese. I Celti lo consideravano l’albero dell’Aurora dell’anno, in cui cadeva la  “festa del latte” (Imbolc), poiché la celebrazione coincide con il primo fiorire del latte nelle mammelle delle pecore, circa un mese prima della stagione della nascita degli agnelli. Questo sottile segnale di ritorno della fertilità era il primo di una serie di eventi che annunciavano il rifiorire della vita sulla terra e, per la tribù, segnava l’urgenza di cominciare un nuovo ciclo di attività. Questa è la festa più intima e raccolta dell’intero anno sacro: all’interno delle palizzate che circondano il villaggio, chiusi nelle capanne coperte di neve, raccolti intorno al fuoco caldo e crepitante, i Celti ascoltavano le storie del proprio clan, rendevano omaggio alla Dea e si preparavano al risveglio del mondo. Tornando al nostro sorbo va detto che Celti Germani lo univano alla mela come nutrimento per gli dei e secondo i Finni era l’albero della vita ed ospitava la ninfa Pihlajatar. In rapporto con le potenze invisibili, il sorbo poteva anche proteggere efficacemente da quelle malvagie e quindi era usato come amuleto contro i fulmini ed i sortilegi. Nel romanzo irlandese “La razzia della mandria di Fraoch” le bacche di un sorbo magico, custodite da un drago, hanno la virtù nutritiva di nove pasti, risanano le ferite ed aggiungono un anno alla vita d’un uomo. Nell’antica Irlanda prima di combattere i druidi accendevano fuochi con legno di sorbo, appunto ed invitavano così gli antichi spiriti del gruppo a prendere parte alla battaglia. Col suo legno si scolpiva una piccola mano, detta di strega, che serviva a scoprire i metalli nascosti sotto terra, ma anche manici di fruste, atte a dominare persino i cavalli stregati, e bastoni da pastori, che proteggevano il bestiame anche dalle epidemie. I suoi frutti dolci e leggermente astringenti sono ricchi di acidi organici (tra cui l’acido sorbico è solo il più famoso), tannini, pectine e mucillagini; si possono far seccare e durano per tutto l’inverno. Un tempo si mangiavano, si mescolavano alla pasta del pane, se ne ricavava una salsa da accompagnare alla selvaggina e servivano anche a preparare una bevanda a bassa fermentazione, simile al sidro, che in Europa centrale si produce ancora adesso. I Romani la chiamavano “cerevisia”

Un antico proverbio così recita: “ con il tempo e con la paglia, maturano le sorbe e la canaglia”.

Fino alla fine dell’Ottocento i frutti del Sorbo, dopo un appassimento al sole, venivano aggiunti all’impasto del pane per ottenere una specie di dolce.

Era un albero sacro perché gli dei si nutrivano dei suoi frutti.

Un pezzetto di legno di Sorbo, tenuto in tasca, è un ottimo talismano che ci protegge dai fulmini e dai sortilegi.

I marinai attaccavano dei blocchi del suo legno sulla chiglia della nave perché li difendesse dalla furia delle tempeste marine.

Piccole perle:

“fare un infuso con un po’ di foglie di Sorbo in un litro di acqua bollente; dopo 10 minuti filtrare e bere. E’ un ottimo espettorante in caso di tosse”

“togliere i semi da alcuni frutti di Sorbo ben maturi, macinateli con un passaverdura oppure schiacciateli bene con i rebbi di una forchetta; la “pappetta” ottenuta è un’ottima maschera per le pelli stanche”

“fate bollire per circa un’ora alcuni frutti tagliati a quarti e non privati dei semi; filtrate il liquido ottenuto che vi servirà per sciacqui e gargarismi in caso di gola arrossata ed infiammata”.

Uso cosmetico: si produce una maschera di bellezza fatta con polpa di sorbe ben mature setacciate e commiste a farina usata quale blando astringente e turgescente per i visi precocemente invecchiati e con piccole rughe.

Agrifoglio(Ilex aquifolium)Fam. Aquifoliacee

17 novembre 2009

 

di Loriana Mari

Caratteristiche: albero a chioma stretta e conica, presenta ramificazioni regolari da giovane che diventano disordinate con l’età, può raggiungere i 20 m di altezza. Le foglie sono lucide, lucenti persistenti in inverno, lunghe fino a 10 cm con apice e margini spinosi. I frutti sono bacche rosse larghe e polpose, molto appetite dagli uccelli ma velenose per l’uomo.

Habitat: originario dell’Asia Occ. e dell’Europa vive nei boschi foggio e di quercia. L’agrifoglio è una specie spontanea dell’Europa centroccidentale con un vasto areale che va dalle coste atlantiche e mediterranee alle regioni costiere dell’Asia Minore. Si trova preferibilmente nelle regioni con clima oceanico, caratterizzate da piovosità accentuata, limitata siccità estiva ed escursione termica moderata, dove cresce in boschi umidi di latifoglie, con preferenza per i terreni acidi. In passato si trovava spesso associato al tasso (Taxus baccata) a costituire una fascia quasi continua sulle Alpi e sull’Appennino al limite della faggeta. Ora l’agrifoglio si concentra nei boschi medio montani delle nostre regioni centromeridionali e nelle isole, specialmente in querceti, boschi misti di leccio e caducifoglie e faggete. Ha tronco diritto rivestito da corteccia verde-bruno scura. I fiori unisessuali, cioè solo maschili o solo femminili, sono portati da piante separate: l’agrifoglio è dunque una specie dioica e solo le piante femminili portano le drupe. E’ una pianta molto apprezzata per la sua eleganza e gli splendidi colori tanto che la raccolta eccessiva a scopo ornamentale sta mettendo in serio pericolo la specie. La fioritura avviene a  maggio-giugno e la fruttificazione in agosto-settembre.

Storia, mito, magia: Il nome latino della pianta, Ilex aquifolium (famiglia Aquifoliaceae), deriva da acrifolium: acer=acuto e folium=foglia, in riferimento alle foglie spinose. Come i rametti di pungitopo (Ruscus aculeatus), anche quelli di agrifoglio venivano posti sulle corde alle quali si appendeva la carne salata, per proteggerla dai topi: di qui il nome comune di “pungitopo maggiore”.

L’Agrifoglio è un albero dalla simbologia maschile, legato all’amore fraterno e alla paternità. Era considerato, insieme all’Edera e al Vischio, un potente simbolo di vita, per le sue foglie annuali e i suoi frutti invernali. Nelle quotidianità celtica si pensava che l’Agrifoglio fosse di aiuto e sostegno in ogni sorte di battaglia spirituale.

Una volta tanto Celti, Latini, Greci ed Etruschi si ritrovano perfettamente d’accordo: l’agrifoglio protegge dal male e garantisce fecondità e continuità della vita. In parte è un presagio ricavato facilmente dalle foglie spinose e coriacee e dai frutti rossi che maturano nel cuore dell’inverno, per cui è sempre stato al centro delle feste invernali appunto, dai Saturnali romani al Natale cristiano. Gli Etruschi però, come sempre, erano più precisi e la consideravano una pianta potente e pericolosa, vera e propria protagonista del bosco di confine della città, la famosa zona sacra che si stendeva tra le mura e l’abitato propriamente detto, ma per nessun motivo coltivata all’interno dei giardini domestici, forse anche perché i suoi frutti son velenosi per l’uomo anche se  costituiscono un vero e proprio cibo invernale per gli uccelli. L’Agrifoglio è simbolo di paternità e amore fraterno ed è sempre stato considerato simbolo di vita. Il suo legno veniva usato per costruire ottime lance facilmente bilanciabili nelle mani di un guerriero e precise nella direzione in cui venivano scagliate. Contornate da cristalli di brina, le pungenti foglie dell’agrifoglio non hanno perduto il loro verde scuro e lucidissimo, e le bacche scarlatte fanno capolino nel diffuso biancore, trasmettendo calore, vitalità e allegria. Queste particolarità hanno fatto di questo splendido albero un simbolo del Solstizio d’Inverno, un inno alla rinascita imminente del Sole caldo e luminoso, un augurio di gioia e buona fortuna per l’anno che deve venire. Le sue bacche soprattutto, anticamente erano viste come piccole eco del grande astro di cui si attendeva trepidanti il ritorno. Per questo, qualche giorno prima del Solstizio si usava regalare dei rametti di agrifoglio alle persone amate: essi rappresentavano l’immortalità, la sopravvivenza oltre la morte apparente, e avrebbero portato una piccola luce nel buio e un po’ di calore nel gelo, insieme alla fortuna che proviene dai regni della natura sottili. I druidi appendevano rami di agrifoglio nelle loro abitazioni per onorare con amore gli spiriti della foresta, e dopo di loro questa usanza continuò ad essere rispettata, con l’intento di allontanare sortilegi e fulmini, di propiziare la fertilità degli animali e della terra, e soprattutto la protezione dalle presenze malevole e dalla sfortuna. Le spine appuntite delle sue foglie, infatti, mostrano senza alcun dubbio la sua funzione di difesa naturale, di combattività verso ciò che è pericoloso o ostile, di reazione attiva agli stati d’essere negativi. I fiorellini bianchi dell’agrifoglio, appesi alla maniglia della porta di casa, si credeva ostacolassero l’entrata di persone o entità dannose, e questa forza magica si pensava fosse ancora più forte e potente se la porta stessa fosse stata costruita con il suo legno duro e resistente. Soprattutto durante le feste del Solstizio e del Natale una simile protezione sarebbe stata auspicabile, dato che in tal periodo i folletti del bosco si sbizzarriscono e sono molto più dispettosi del solito e si sbizzarriscono con i loro scherzi e le loro malefatte. Un’altra proprietà magica dell’agrifoglio era quella di ammansire gli animali selvatici e imbizzarriti, nonché quella di rendere più dolce e sopportabile il gelo dell’inverno, proprio come un piccolo Sole che agiva in modi misteriosi, forse scaldando e rallegrando l’anima più che il corpo.
Come albero simbolo del Solstizio d’Inverno, l’agrifoglio è anche legato alla parte calante dell’anno, quella che dal momento di maggior splendore del Sole porta al momento più buio e freddo. Esso rappresenta il Vecchio dell’anno passato, il Re Agrifoglio dalla lunga barba bianca e dal sorriso radioso che porta i suoi regali a chi ha conservato in sé uno spirito bambino. Egli, che a seconda delle tradizioni assume nomi diversi, non è altri che il dolce e caro Babbo Natale, che proprio per non dimenticare le sue antichissime origini, ancora oggi porta tradizionalmente un rametto di agrifoglio sul berretto. In Irlanda, se si ricevevano rami d’agrifoglio prima del Solstizio, questi venivano spazzati fuori subito dopo il Solstizio stesso, poiché non era di buon auspicio conservare le cose dell’anno vecchio, ed inoltre in tal modo si spazzava via tutto ciò che apparteneva al passato, potendo poi cominciare un nuovo ciclo più leggeri e con lo sguardo rivolto non indietro, ma avanti a se. Come accennato, l’agrifoglio era connesso anche alla Fortuna che poteva pervenire dai regni sottili. Questa sua magica caratteristica compare in una delle antiche leggende irlandesi appartenente al Ciclo di Finn Mc Cumhail, nella quale si racconta che le tre figlie di Conanan possedevano tre fusi costruiti con il suo legno. Su di essi le tre Donne avevano posto matasse di filo fatato ed avevano filato la sorte di Finn e dei suoi guerrieri, provocando il loro imprigionamento e forse, con esso, una delle prove che essi avrebbero dovuto superare.
In questo senso, l’agrifoglio risulta essere vicino alle sacre Filatrici del Destino, nonché loro stesso strumento per determinare la sorte degli uomini posti sotto la loro protezione.
Sempre tra i celti, con il legno dell’agrifoglio si costruivano le lance e gli scudi dei guerrieri. Anche in questo caso appaiono chiaramente le funzioni di attacco alle forze ostili e, al contempo, difesa da esse, esercitate dalla pianta e probabilmente resi ancor più potenti ed efficaci dai suoi influssi sottili.

Anche i neonati potevano essere protetti da questo magico arbusto; per questo venivano spruzzati con l’Acqua di Agrifoglio, preparata come infuso delle foglie oppure come distillato.
Infine, pare che un antico incantesimo usasse l’agrifoglio per attirare i desideri del cuore. Se ne dovevano raccogliere nove foglie da una pianta non troppo spinosa, dopo la mezzanotte di un venerdì, nel più completo silenzio. Le foglie dovevano essere avvolte in un panno bianco, alle cui due estremità si dovevano fare nove nodi. Il sacchettino andava quindi riposto sotto al cuscino e ciò che si sarebbe intensamente desiderato, poggiandovi sopra la testa, si sarebbe presto avverato.

Nel Medioevo era associato al diavolo, per via delle foglie spinose, ma in ogni altro periodo e presso ogni popolo è sempre stato amato da tutti, perché le allegre bacche colorano i boschi in pieno inverno. Già per i Celti l’agrifoglio era una pianta sacra, ma in Italia la tradizione di usare l’agrifoglio a scopo augurale è arrivata grazie ai Romani che, conquistata la Bretagna, scoprirono che i sacerdoti celti usavano la pianta per proteggere le persone dai disagi dell’inverno e per ammansire gli animali; i Romani iniziarono a donarne i rami agli sposi novelli, come augurio e, durante i Saturnali, ne tenevano ramoscelli come talismani, e li piantavano vicino alle case per tener lontani i folletti che, secondo la tradizione, amavano architettare molti scherzi in questo periodo, ne decoravano la casa nel periodo dei Saturnali. L’agrifoglio era la pianta sacra di Saturno e veniva usato durante i Saturnalia per rendere onore al dio. I romani erano soliti fare delle ghirlande di agrifoglio per decorare le statue di Saturno. Secoli dopo, in Dicembre i primi cristiani iniziarono a celebrare la nascita di Gesù. Per evitare persecuzioni continuarono ad ornare le loro case con l’agrifoglio durante i Saturnalia. Una leggenda racconta di un piccolo orfanello che viveva con alcuni pastori quando gli angeli araldi apparvero annunciando la lieta novella della nascita di Cristo. Il bambino si mise in cammino verso Betlemme con gli altri pastori e sulla via intrecciò una corona di rami da portare in dono a Gesù Bambino. Ma quando pose la corona davanti al Bambinello gli sembrò così indegna che si vergognò del suo dono e si mise a piangere. Allora Gesù Bambino toccò la corona e le sue foglie brillarono di un verde intenso e trasformò le lacrime dell’orfanello in splendide bacche rosse. Con l’avvento del Cristianesimo l’Agrifoglio divenne l’Albero Santo a rappresentare la Croce di Spine.

Piccole perle:

In caso di allergie consultare sempre il medico e assumere sempre sotto il controllo del medfico.

infuso per contrastare l’influenza: mettere 1 o 2 cucchiaini di foglie d’agrifoglio fresche, spezzettate, in una tazza d’acqua, lasciando riposare per una notte. La mattina seguente far bollire brevemente il composto, zuccherare, preferibilmente con del miele, e bere durante la giornata, anche due tazze al giorno.

Vino d’agrifoglio contro la febbre: far macerare 25 grammi di foglie fresche, pestate nel mortaio, in mezzo bicchiere di alcool a 60° per una settimana. Aggiungere poi una tazza di vino bianco e lasciar riposare ancora per una settimana, al termine della quale il preparato andrà filtrato. Assumere due cucchiai di vino d’agrifoglio per tre volte al giorno.
Vino d’agrifoglio per calmare la diarrea: in un litro di vino rosso bollente mettere 30 grammi di foglie fresche d’agrifoglio, facendo bollire il tutto per circa 10 minuti. Assumere durante la giornata, in cucchiai da tavola, senza però mai superare i 70 grammi.
Decotto per combattere la bronchite: bollire a fuoco basso 30 grammi di foglie d’agrifoglio essiccate in un litro d’acqua, per 10 minuti. Sciogliere del miele, far raffreddare e bere due tazze al giorno.

 

VISCHIO

14 novembre 2009

vischio

 

( Viscum album)

Fam. Lorantacee

 

 

di Loriana Mari

 

 

 

Caratteristiche: il vischio è una pianta legnosa, alcuni sono sempreverde, perenne e semiparassita che appartiene alla Famiglia delle Lorantacee. Affonda le sue radici nei tronchi di vari alberi e si alimenta della loro linfa; le foglie racchiudono bacche gelatinose, somiglianti a perle, che contengono un solo seme immerso in una polpa vischiosa, grazie alla quale aderiscono alla pianta ospite per il tempo necessario  a sviluppare gli aresteni. I suoi semi per germinare hanno bisogno della luce del sole e allo stadio adulto il vischio riesce a produrre clorofilla anche al buio. In realtà non è nemmeno una pianta, ma un semi-parassita, perché dotato di polloni che penetrano nel tronco dell’ospitante assorbendone la linfa, ma indipendente per lo sfruttamento dell’acqua e della luce, dato che produce da sé la clorofilla. Non è quindi nocivo come l’edera, che può portare alla morte l’albero a cui s’attacca. Cresce più volentieri sugli alberi da frutto, ma è facile vederlo sui pioppi, pini ed abeti. Il famoso vischio della tradizione celtica era esclusivamente di quercia.

Habitat: diffuso in gran parte dell’Europa e dell’Asia, in Italia cresce fino ai 1200 m slm, soprattutto nelle zone boscose di latifoglie.

Proprietà: le caratteristiche medicinali del vischio, conosciute già dai tempi di Ippocrate e Plinio, sono assai interessanti e di recente si sono scoperte anche le sue proprietà antitumorali, sulle quali procedono tuttora le ricerche. Le parti utilizzate sono le foglie che contengono colina e acetilcolina, sostanze che agiscono sul sistema neurovegetativo. Un uso esagerato di esse può causare la morte per arresto cardiocircolatorio. Le bacche sono tossiche e se ne sconsiglia l’uso medicinale. Le sue proprietà sono: ipotensivo e vasodilatatore, antispasmodico e sedativo, diuretico e depurativo. Anche la farmacopea moderna esprime molte riserve sul suo uso: in dose eccessive provoca la perdita della sensibilità, una progressiva paralisi ed addirittura l’arresto cardiaco! D’altra parte pare che sia l’unico regolatore naturale della pressione arteriosa, ottimo antiemorragico, analgesico e naturalmente diuretico. Un tempo si usava con successo contro l’epilessia, l’asma e l’isteria e qualcuno lo ha lanciato anche come anticancerogeno. Attualmente gli erboristi gli preferiscono specie meno pericolose.

Storia, magia e leggenda: il vischio è sempre stato considerato una pianta sacra, una specie di miracolo della natura che d’inverno spicca nei boschi quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il Vecchio descrive i rituali delle popolazioni galliche che accompagnavano la raccolta del vischio: “…nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno i druidi si avvicinavano alla quercia indossando candide vesti e conducendo due tori bianchi. Il capo dei sacerdoti saliva sull’albero e usando un falcetto d’oro tagliava i rami del vischio che venivano raccolti in una pezza di lino bianca, prima che cadessero a terra. Poi immolati i due tori, pregavano per la prosperità di quanti avrebbero ricevuto il dono.”

L’uomo è stato sempre incuriosito dai mazzi verdeggianti quasi sospesi sulle piante, ricchi di bacche perlacee, in un periodo nel quale la natura non produce alcun frutto. Questa pianta che cresce senza toccare terra è ancora oggi bene augurante: come da tradizione la notte di S. Silvestro ci si scambia saluti e auguri sotto il ramo di vischio, che non deve mai toccare terra per non perdere i suoi poteri magici, infatti  è considerato un amuleto contro le disgrazie e gli influssi negativi; e se si passa in compagnia sotto un cespo di vischio ci si deve baciare, ma se una ragazza non riceve questo bacio rituale non si sposerà nell’anno successivo. Viene generalmente appeso sulla porta di casa, là, come diceva Plinio tra cielo e terra. Molte di queste usanze ci giungono dai Celti, che la consideravano una pianta donata dagli dei, favoleggiavano che nascesse là dove era caduta la folgore, simbolo di una discesa della divinità e dunque di immortalità e di rigenerazione. Queste caratteristiche non potevano non ispirare ai cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo, nato in modo misterioso, parte dall’umanità, ma separato da essa per la sua natura divina. Prima di questa elaborazione divina la Chiesa non aveva voluto ammetterlo tra i suoi ornamenti perché legato alla tradizione pagana.

Strana pianta lo definisce Mességué nel suo celebre erbario, verde quando tutti gli altri alberi sono spogli, prende una forma perfettamente sferica, ha un indefinibile colore pastello, foglie ovali simili ad orecchie di coniglio, bacche bianche, che sono il cibo preferito di tordi, merli, cinciallegre e capinere. Una volta raccolto perde i colori originari per divenire sempre più dorato, tanto che tra le varie proprietà magiche che gli sono state attribuite c’è la capacità di brillare nel buio in prossimità di giacimenti d’oro. Il vischio dei Celti era esclusivamente di quercia, l’unico, tra l’altro, che abbia le bacche color dell’oro e veniva raccolto solo in caso d’effettiva necessità, con una piccola falce d’oro usata da mani pure, a digiuno, vestiti di bianco ed a piedi nudi, offrendo in cambio alla foresta una libazione di pane e di vino, perché la leggenda racconta che proprio quando il vischio fu strappato per la prima volta dalla quercia, il buon dio Bälder venne a morte. In realtà il vischio è un parassita e strapparlo non reca alcun nocumento, anzi… ma all’epoca in tutta Europa si pensava diversamente e lo stesso Enea per entrare nell’Ade reca in mano un rametto di vischio. La tradizione scandinava è ricca di racconti e leggende legate al vischio. Già nell’antichità i druidi lo usavano per ottenere infusi e pozioni medicamentose, al fine di combattere malattie ed epidemie che flagellavano e decimavano le popolazioni del tempo; presso i druidi, infatti, il vischio era conosciuto come la pianta in grado di guarire da qualunque malattia. La mitologia norvegese sottolinea il legame col dio Bälder, che morì colpito appunto dal vischio. In memoria del dio, i norvegesi sono soliti bruciarne i rami in prossimità del solstizio d’estate, con lo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità ed il benessere. Probabilmente il significato oggi attribuito alla pianta deriva da queste antichissime credenze popolari, anche se per motivi non del tutto chiari il rito è stato “spostato” all’epoca del solstizio d’inverno. Siamo soliti, infatti, donare o tenere in casa rami di vischio tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno nella speranza di proteggere in tal modo noi stessi, le persone a noi care e la nostra casa dai guai e dalle disgrazie. In effetti i norvegesi bruciavano il vischio d’estate… non è escluso che fosse proprio vischio regalato o raccolto in inverno e gelosamente conservato fino allora! Naturalmente non abbiamo elementi per chiarire il significato del tutto.  Il fatto che la pianta apra per Enea le porte dell’Ade non costituisce propriamente una spiegazione,  ma forse accresce il mistero. Dato che invece continuiamo a baciarci sotto il vischio ad ogni capodanno la sua valenza è essenzialmente quella di portafortuna, attenzione però: qualora si volesse raccogliere a mani nude, soprattutto usando la sinistra, si rischierebbe la mala sorte! Inutile dire che nessuno è più soggetto a questa tentazione, dato che il vischio ormai da anni compare già confezionato e dorato direttamente nelle botteghe dei fioristi. In Francia per le feste natalizie è venduto al naturale, come qualsiasi fiore reciso.

 

 

 

 

 

 

 

Il significato occulto dei simboli – Svastika

13 novembre 2009

svastika

di Rossella Cau – studiosa di scienze esoteriche

Gli archetipi divini, cosmici e le forme pensiero umane impressionano la mente che, a seconda della sua chiarezza e lucidità, riflette nel cervello immagini più o meno fedeli all’originale.

Svastika, emblema adottato dalla Germania Nazista che, nella nostra memoria, sventola ancora sulle innumerevoli bandiere nelle piazze gremite di gente affascinata ed osannante il Fuhrer, in preda a quella che Jung, in “La lotta con l’ombra” (1946), individuò come psicosi di massa:  Quando si verifica che tali simboli – mitologici collettivi che esprimono primitività e violenza- facciano la loro comparsa in un gran numero di individui, senza però venire da loro compresi, capita che incomincino ad attrarli insieme, quasi in virtù di una forza magnetica, ed ecco formarsi una massa. Un capo sarà poi trovato nell’individuo che dimostri la minor resistenza, il più ridotto senso di responsabilità, la più forte volontà di potenza. Questo scatenerà tutte le energie pronte ad esplodere e la massa seguirà con la forza inarrestabile di una valanga.- L’uso di questo simbolo esoterico come emblema della Germania Nazista è basato su teorizzazioni di vari studiosi occultisti che,  partendo dagli studi teosofici della Blavatsky ne manipolarono gli insegnamenti per raggiungere l’ideale di una unione politica di tutti i popoli di razza ariana cioè il Pangermanesimo, perpetrando una dominazione e conseguente estirpazione delle razze inferiori che ne avevano corrotto l’antica integrità. Secondo queste teorie, infatti, le forze cosmiche non possono vitalizzare corpi il cui sangue sia impuro e così attraverso la purezza razziale riconquistata, anche attraverso gli esperimenti scientifici, si sarebbe dovuta ottenere l’illuminazione collettiva espressa dal potere politico e spirituale di tutto un popolo.  Il mito di Wotan- Odino, l’antico Dio germanico guerriero e rivelatore di scienza ermetica fu la Guida ideale alla purificazione attraverso il sacrificio di sangue versato in guerra. All’interno del corpo militare delle SS, si sviluppò a questo scopo l’Ordine Nero, comandato da Himmler, setta iniziatica che usava metodi occulti per il controllo della volontà e delle coscienze. L’aspirante studiava il catechismo delle SS  e ne assimilava i precetti, tra cui il ruolo messianico di Hitler, salvatore e rigeneratore del popolo germanico, colui che avrebbe trasformato l’uomo di razza ariana pura in uomo-dio.

In contrapposizione  alle deviate teorie occulte del nazismo troviamo che il significato della parola sanscrita Svastika è conduttivo al benessere. E’ infatti uno dei simboli solari più diffusi e antichi. Appartiene a moltissime culture. Lo troviamo presso i popoli Maya,  Mongoli,  Mesopotamici,  Greci, Etruschi, Celti, Indiani d’America e in India. Alcuni studiosi ne attribuiscono la derivazione addirittura ad Atlantide. Il disegno della Svastika rappresenta il vortice della creazione che si espande da un punto centrale verso l’esterno, con rotazione destrorsa, mentre con rotazione sinistrorsa indica il ritorno all’origine, la distruzione delle forme, il Kali Yuga. Essa simboleggia  la Ruota di vita con i suoi cicli universali, le sue correnti di energia. Sintetizza in sé il segno della Croce, soprattutto quella Greca, con i bracci uguali, che rappresenta l’equilibrio tra le forze materiali e quelle spirituali, e il segno della   Spirale che nel suo significare involuzione ed evoluzione cosmica indica il cammino verso la coscienza ed il ritorno della Materia allo Spirito, del Figlio al Padre. In quest’accezione è stata a lungo considerata emblema del Cristo. Il simbolo della Svastika  in relazione alla Ruota della Legge – Dharmachakra -, che gira intorno al suo centro immobile, è anche un emblema del Buddha. Talvolta nel suo centro compare Agni, il Fuoco.

Nel simbolismo massonico, il centro della svastika raffigura la Stella Polare e i quattro gamma, cioè i bracci rotanti, che la costituiscono, le quattro posizioni cardinali dell’Orsa Maggiore, le quali sono messe in relazione con i quattro punti cardinali e le quattro stagioni. In Cina, la Svastika  è il segno del numero diecimila, che è la totalità degli esseri e della manifestazione. Una forma secondaria ma di simbologia non meno interessante è la Svastica Clavigera degli stemmi papali, che indica il potere di legare e di sciogliere in terra e in cielo conferito da Cristo a San Pietro. L’asse verticale corrisponde alla funzione sacerdotale e ai solstizi, l’asse orizzontale alla funzione regale e agli equinozi.

 

 

 

ACHILLEA MILLEFOLIUM

31 ottobre 2009

achillea

di Loriana Mari

Caratteristiche: pianta: erbacea perenne, con fusto più o meno ramoso, alta 20-80 cm. Le foglie, un poco tomentose, hanno un bel verde gaio e sono talmente incise e seghettate che sembra portino tante minuscole foglioline disposte alternativamente lungo la nervatura della foglia stessa; se strofinate fra le dita emanano un fragrante aroma. Fiori: molto piccoli, riuniti in densi capolini che formano corimbi composti più o meno grandi; fiori ligulati esterni bianchi o rosso-rosa, fiori tubulosi interni giallo-bianchi: osservato singolarmente, ciascun fiore è simile ad una piccola margherita.

Fioritura: marzo-ottobre.

Habitat: fiorisce lungo le strade, le ferrovie, nei terreni incolti, nei coltivi, nelle boscaglie e nei campi lasciati a sodo.

Proprietà : Se le sue proprietà  vulnerarie sono oggi poste in dubbio, l’impiego interno della Millefoglie è stato oggetto di una grande quantità  di lavori, che hanno dimostrato la sua utilità  come amaro-tonico, emostatico, emmenagogo. Per uso esterno, il succo fresco contribuisce a risanare piaghe e ferite; in infuso 2 manciate in 200 cc d’acqua per gargarismi o lavature. Le foglie e gli apici freschi ridotti in pasta arrestano l’emorragia facilitando la cicatrizzazione e una foglia fresca masticata lenisce il mal di denti. Vengono impiegate le sommità  fiorite, la cui raccolta è possibile durante tutta l’estate.

E’ impiegata come uso esterno come topico contro le emorroidi, le ragadi astringente, tonico, anali e quelle delle mammelle, in quanto agisce come astringente, tonico, sedativo e stomachico. (l’infusione deve essere preparata in piccole quantità per il suo rapido annerimento che si accompagna allo svanimento dell’aroma). Due o tre tazze al giorno prima dei pasti evitare l’uso di pentole di ferro, come con tutte le piante ricche di tannino. All’infusione si può aggiungere l’Anice, il Basilico, il Trifoglio fibrino, nei casi di crisi acute. La macerazione delle sommità nel vino, si fa con le medesime proporzioni e viene usata come aperitivo. L’infusione e la macerazione hanno anche una buona influenza sulla circolazione sanguigna. E’ una buona pianta da prato, che si mescola vantaggiosamente con le graminacee, la sua presenza è desiderabile nei prati, in quanto li arricchisce apportando al foraggio benefici effetti sulla salute del bestiame. Un tempo si riteneva che fosse un ottimo rimedio contro la scabbia degli ovini.

Storia, leggenda, mito, magia: in Inghilterra viene chiamata “erba benedetta” per le sue proprietà  curative, in Irlanda era usata per scacciare il malocchio e gli antichi Celti celebravano un vero e proprio rito religioso in occasione della sua raccolta.

E’ considerata un’antenna capace di potenziare la telepatia dell’uomo. Infatti se tenuta tra le mani senza strapparla dal terreno aiuta a farsi ricordare da quelle persone che non si vedono da molto tempo e sono lontane geograficamente.

Il nome deriva dall’ eroe greco Achille che usò questa pianta per curare erimarginare le ferite di Telefo. L’uso della pianta era stato insegnato ad Achille dal medico ateniese Chirone. Dagli steli dell’Achillea si ricavano le 50 bacche vegetali utilizzate nel metodo divinatorio illustrato nel libro delle mutazioni Yi-King. Gli steli venivano lanciati in aria e la loro disposizione, una volta che ricadevano a terra, forniva il responso.

I CELTI E L’UMBRIA

11 ottobre 2009
croce celtica

croce celtica


di Diego Antolini

Dal punto di vista militare i Celti possedevano grandi abilità, che permisero loro di espandersi praticamente su tutto il continente europeo, dalla Spagna alla Boemia, dalle Isole Britanniche al Mediterraneo.

I Celti, popolazione di origine indoeuropea dal passato ancora in buona parte oscuro,  si sarebbero formati come popolo all’incirca nel 600 a.C. nel bacino dell’Europa centrale (tra il basso Rodano e l’Alto Danubio). Di cultura nomade, essi furono protagonisti di varie e importanti ondate migratorie che li portarono a colonizzare l’Europa, venendo a contatto con le genti che allora popolavano il continente (Sciiti, Kurgan, Greci, Etruschi, popoli del Nord). Da tale incontro i Celti mutuarono alcune usanze, come la costruzione di tumuli funerari e la venerazione per il cavallo. I Romani, dalle cui fonti abbiamo la maggior parte di notizie riguardanti questo popolo misterioso, narrano di gente guerriera e barbara, che conservava le teste dei nemici a protezione della casa e praticava sacrifici umani e cannibalismo.

Sarebbe tuttavia riduttivo dipingere un’immagine dei Celti così limitata e crudele, se pensiamo alla loro struttura sociale, stratificata in tre livelli di base: il druido (sacerdote), il cavaliere (uomo di potere economico e militare) e il popolo. Il trittico sacro era abilmente intrecciato nel tessuto sociale, con il Druido come “tramite” tra la natura e l’uomo, il guerriero come condottiero in battaglia e il popolo come piattaforma sociologica familiare. Se è vero infatti che i Druidi, erano l’apice della piramide sociale, la famiglia, riunita in clan, ne rappresentava le fondamenta. Da qui il perfetto equilibrio trifunzionale di questa cultura.

Dal punto di vista militare i Celti possedevano grandi abilità, che permisero loro di espandersi praticamente su tutto il continente europeo, dalla Spagna alla Boemia, dalle Isole Britanniche al Mediterraneo.

La religione, che risente moltissimo dell’origine indoeuropea del ceppo originario celtico, contemplava la reincarnazione, la rigenerazione dell’anima e la resurrezione; il culto della natura e il contatto con il cosmo era la matrice mistica fondamentale. Del pantheon celtico va menzionato il trittico Teutate (dio molto potente che veniva placato con sacrifici umani), Eso (anch’esso dio sanguinario, simboleggiato dal Toro) e Tarani (dio della guerra). In seguito il dio Lugh prese il potere su tutti.

Anche l’Italia ha conosciuto l’influenza celtica. In Umbria questo è ravvisabile anzitutto nel nome di alcune divinità locali antichissime, come il Dio Penn, o Pennin.

Penn significa “cima”, ma alcuni storici romani ne parlano come di una misteriosa divinità femminile. La Dea Pennina venne in seguito sostituita da un nuovo culto maschile, quello di Giove, poi detto Pennino.
L’Umbria sarebbe una delle regioni italiane che presentano più connessioni con il “Popolo della Quercia”, come dimostrano le molte similitudini tra il dialetto umbro e la lingua celtica (ancora oggi conservata intatta grazie alla diffusione del gaelico in Irlanda, in Galles e in Scozia).

Ad esempio l’articolo “il” si dice “Lu” in gaelico, ma anche nel dialetto ternano. Come Asun è Asino, Mul è Mulo e Gapr è la Capra per entrambi gli idiomi.

Il professor Farinacci fondò anni fa un’associazione (nel ternano) con lo scopo di dimostrare l’origine celtica delle popolazioni e delle tradizioni umbre. Questa sua tesi è accompagnata da moltissimi indizi: a Monte Spergolate (Stroncone) si trova un tempio dedicato al Sole; a Torre Alta c’è un osservatorio astronomico ancestrale, formato da una roccia–menhir con la cima scavata, a formare una vaschetta quadrata riempita d’acqua. Le costellazioni si specchiavano nella vasca e indicavano nei vari periodi dell’anno solstizi ed equinozi con precisione matematica; a Cesi vi sarebbe la “Pietra Runica di Cesi”, una pietra che presenta simboli runici e che, secondo Farinacci, sarebbero attributivi del “culto fallico”, rituale presente anche a Carsulae.
Qui vi sarebbero tracce del “Culto del Priapos”, antico rito della fertilità legato al Sole che con i suoi raggi mutati in pietra penetrava la Madre Terra e la rendeva fertile.

La conferma dell’esistenza di tali riti nella zona si troverebbe nella presenza di simboli sotto il Menhir, che rappresenterebbero segni zodiacali e il “Fiore della Vita”, simbolo di fertilità, orientato ad Est, verso il Sole (elemento maschile) che tramite il “Priapos” rende fertile la terra (elemento femminile).
Il santuario del culto fallico si sarebbe trovato al posto dell’attuale Chiesa di San Damiano; lì gli iniziati venivano portati per il sacrificio rituale.
Altri indizi a sostegno della tesi dell’influenza celtica in Umbria sono il mosaico con le croci uncinate (o svastiche) e il nodo gordiano, che un tempo dovevano ornare il Santuario del Culto Fallico (oggi il mosaico è conservato al Museo Civico di Spoleto). Nel mosaico è rappresentato un uomo che porta un bastone con una scacchiera in equilibrio e orina. L’immagine descrive forse un Druido nell’atto di preparare la magica “Acqua Santa”, che utilizzava una miscela di orina e acqua. La scacchiera potrebbe rappresentare l’unione delle tribù celtiche sotto il comando di Carsulae.

Presso questo luogo mistico vi sarebbe inoltre l’ingresso del Regno dei Morti, o la Porta di Saman (oggi Arco di San Damiano).

Sulla cultura celtica si protendono ancora molte ombre di carattere mistico ed esoterico, relative soprattutto al ruolo effettivo dei druidi e a quello della donna, la quale era considerata un “veicolo” spirituale e medianico importantissimo. Il principio femminile è stato in seguito interamente sostituito dal predominante maschile della cultura romana, e questo rende molto difficile il lavoro di chi tenta di riportare alla luce i segreti di un popolo che, attraverso i millenni, è capace ancora di suscitare fascino e mistero.