Posts Tagged ‘erbe’

Aboca Museum: la forza della natura nelle erbe medicinali

28 settembre 2015

farmaciadi Benedetta Tintillini

A Sansepolcro, nell’elegante palazzo Bourbon Dal Monte, è ospitato il Museo Aboca, dedicato all’utilizzo secolare delle piante nella cura delle malattie.

Attraverso sale tematiche, ogni oggetto racconta della stretta relazione tra le erbe spontanee ed il loro utilizzo da parte dell’uomo, sin dalla storia più remota. (more…)

Perugia: Spezie che si pietrificano e diventano gioielli.

22 settembre 2014
Marine Arena con il proprietario di Bibliothè

Marine Arena con il proprietario di Bibliothè

L’idea, già brevettata, è venuta a Marine Arena, 36 anni, perugina che, dopo tredici anni, ha lasciato la sua attività da grafica pubblicitaria e si è data al disegno, la sua passione.

Papà perugino, mamma francese, Marine è sposata con un ingegnere, ha due bambini e un diploma all’Accademia di Belle Arti del capoluogo umbro, che non ha mai sfruttato.

“Per troppo tempo – dice – ho inibito la mia creatività. Da piccola amavo disegnare. Lo facevo anche sui banchi di scuola. E per fortuna non mi hanno mai (more…)

Corciano: Memorie, profumi e sapori delle erbe e della frutta Castello di Pieve del Vescovo di Migiana

25 settembre 2013

Sabato 28 e Domenica 29 settembre 2013 il Castello di Pieve del Vescovo a Corciano (PG) ospiterà la IV edizione di “Herbae Volant, Fructus Manent. Memorie, Profumi e Sapori delle erbe e della frutta”, promosso dall’Associazione (more…)

Marc Mességué ai Cappuccini Wellness & Spa

6 marzo 2013

Dall’idea di ricerca del benessere a partire da un rapporto privilegiato con la

Marc Messegue

Marc Messegue

natura è nata la collaborazione con il famoso fitoterapista ed erborista Marc Mességué destinata ad arricchire ulteriormente le proposte del Cappuccini Wellness & Spa. Una rivoluzionaria, eppure antichissima, filosofia di benessere, in cui la ricerca e l’utilizzo delle erbe e l’alimentazione sana si integrano alla medicina, alla fisioterapia ed ai trattamenti benessere. Gli ospiti del Park Hotel ai Cappuccini possono contare sulla presenza costante di Marc Mességué e del suo storico entourage con in testa il dott. Roberto Merani e su un monitoraggio giornaliero dell’andamento di una cura personalizzata che rispetta (more…)

Goodmorningumbria.it, il click del mattino che ti rende piacevole la giornata

20 marzo 2012

LETTERA A GOODMORNINGUMBRIA

E’ piacevole che la vita sia fatta anche di piccoli, semplici riti quotidiani , come il caffè caldo la mattina o ascoltare la musica che ci piace. Un piacere che so di condividere con molte altre persone è la lettura. E la lettura di Goodmorningumbria.it la sto condividendo con MOLTISSIME altre persone. Tanto che il mio giornale preferito (è di oggi la notizia) ha superato i 600.000 contatti in poco più di due anni!

Per chi ancora non lo conosce, lo consiglio a tutte le persone che, come me, amano informarsi, riflettere, ampliare i propri orizzonti e, perché no, anche divertirsi. Imperdibili sono sicuramente gli articoli sui templari, sull’ esoterismo, archeolgia, teatro, le erbe magiche, e la narrazione delle vicende umane che rendono l’Umbria un autentico crogiuolo di arte,  cultura e  civiltà.

In ogni incontro ognuno  lascia dei segni, e prende qualcosa dall’altro. Così succede anche in questo caso. La possibilità di interazione e di scambio ci fa crescere e fa crescere il giornale e, di conseguenza fa crescere anche il numero dei lettori affezionati, facendoli sentire protagonisti e parte importante di un progetto editoriale unico nel suo genere.

Non mi resta che augurare buon proseguimento a chi condivide con me la lettura del giornale e… soprattutto buon lavoro alla redazione, chiamata a soddisfare, pur con articoli  semplici e diretti ogni giorno, palati molto esigenti!

Benedetta Tintillini

Nota di redazione: Gentile lettrice Benedetta (di nome e le auguro di fatto) di solito ad una nota cosi incensante e garbata si risponde con un commosso … grazie… grazie… grazie, ma forse la migliore risposta che possiamo dare è la conferma del nostro impegno a continuare ad offrire informazione libera, nel rispetto delle idee di tutti, ma anche  nella ricerca continua e del racconto di fatti che  trovano poca cittadinanza negli altri mezzi di informazione.

F.L.R.

LA MAGIA DELLE ERBE – IL ROSMARINO (Rosmarinus officinalis)

25 novembre 2011

Rosmarino

di Loriana Mari

 

Caratteristiche: è un arbusto sempreverde che appartiene alla famiglia delle Labiate. Originario delle regioni del bacino del Mediterraneo. Alto fino a due metri ha fusti prostrati o ascendenti, molto ramificati, con foglie piccole, lineari, coriacee, biancastre sulla pagina inferiore.

I fiori azzurro violacei, anch’essi piccoli, sbocciano riuniti in grappoli ascellari in diversi periodi dell’anno, in relazione al clima, tutta la pianta, ma particolarmente le foglie e i fiori, è fortemente aromatica.

Habitat: cresce sia allo stato spontaneo che coltivato, in Italia è presente ovunque, in luoghi aridi e assolati fino agli 800 mt slm.

Proprietà: è una delle piante aromatiche più utilizzate in cucina, ma anche in medicina per le sue proprietà terapeutiche: è infatti aromatico, stimolante, digestivo, nervino, antisettico, antidolorifico, rilassante, tonico per la memoria, astringente e diuretico. Questo arbusto sempre verde, originario delle coste del Mediterraneo, oggi è coltivato ovunque: lo troviamo negli orti, nei giardini e nelle siepi, ed il suo profumo intenso respinge gli insetti nocivi. Pare che la pianta di rosmarino allontani gli insetti dalle piante vicine. Sacchetti contenenti rosmarino sono spesso messi negli armadi per tenere lontane le tarme. In passato veniva usato per deodorare gli ambienti e purificare l’aria.

Storia, mito, magia: per la sua azione rinforzante sulla memoria, è ritenuto la pianta del ricordo, come dice Ofelia nell’Amleto: “Ecco laggiù il rosmarino, la pianta del ricordo”. Anche Shakespeare accenna alla relazione fra il rosmarino e la memoria; nel dialogo tra Ofelia e Amleto scrive: “C’è il rosmarino, per la rimembranza. Ti prego, amore, ricorda”.

Secondo una leggenda i fiori del rosmarino una volta erano bianchi, divennero azzurri quando la Madonna, durante la fuga in Egitto, lasciò cadere il suo mantello su una pianta di rosmarino.

L’uso della pianta di rosmarino fin dall’antichità è stato da sempre legato alle sue positive proprietà terapeutiche. Sono numerosissime le leggende e le “ricette” proposte a base di questa pianta nel corso dei secoli.  Una preparazione divenuta molto famosa è “l’Acqua della Regina d’Ungheria” che diceva: “Io donna Isabella, regina d’Ungheria, di anni 72, inferma nelle membra e affetta di gotta, ho adoperato per un anno intero la presente ricetta donatami da un eremita mai da me conosciuto, la quale produsse su di me un così salutare effetto che sono guarita ed ho riacquistato le forze, sino al punto da sembrare bella a qualcuno. Il re di Polonia mi voleva sposare ma io rifiutai per amore di Gesù Cristo. Ho creduto che la ricetta mi fosse stata donata da un angelo. Prendete l’acqua distillata, quattro volte trenta once, 1 20 once di fiori di rosmarino, ponete tutto in un vaso ben chiuso, per lo spazio di 50 ore: poi distillate con un alambicco a bagnomaria. Prendete una volta alla settimana una dramma di questa pozione con qualche altro liquore o bevanda o anche con carne. Lavate con esso il viso ogni mattina e stropicciate con essa le membra malate. Questo rimedio rinnova le forze, solleva lo spirito, pulisce le midolla, dà nuova lena, restituisce la vista e la conserva per lungo tempo; è eccellente per lo stomaco ed il petto” (cfr . Giuseppe De Vitofranceschi, Le virtù medicinali del rosmarino, Milano 1983).

Ancora famoso è “l’Aceto dei quattro ladri”.

Un altro balsamo famoso è “Il Balsamo Tranquillo”, chiamato così perchè fu inventato da frate Tranquillo, un cappuccino, formato da una mescolanza di varie erbe, dove spicca il rosmarino, utile per curare i reumatismi.

Ancora ritroviamo nel libro “Teatro farmaceutico” di Giuseppe Donzelli (medico, chimico e filosofo napoletano vissuto nel 1600) la seguente ricetta: “Piglia di fiori di rosmarino libre una, zucchero libbre tre. Si cuoce lo zucchero a cottura di manuschristi e si lascia raffreddare, e poi vi si mescola li fiori sani e si fanno cuocere poco perchè così facendo li si resta il loro colore natio. Conforta il cerebro humido, giova al cuore e corrobora le membra nervose”.

Nota a molti è “l’acqua di San Giovanni” che consiste in una serie di rituali da compiere in concomitanza della festa di San Giovanni, il 24 giugno che corrisponde al solstizio d’estate. Vuole la tradizione che si debbano raccogliere una serie di erbe (ginestra, iperico, artemisia, verbena, timo, rosmarino, salvia, basilico, maggiorana, lavanda, rosa, ecc. La composizione delle erbe varia da regione a regione) il giorno prima del 24 e che siano lasciate in acqua, fuori di casa durante la notte del 24. La mattina dopo ci si deve lavare con quest’acqua e poi buttarla via in quanto si dice che porti benefici alla pelle e come protezione per le malattie. Utilizzata come acqua fatata serve per aumentare la fecondità, la buona salute e difendersi dalle fatture, in modo particolare quelle ai bambini. Si racconta che le massaie, il giorno di mezza estate, preparassero il pane con quest’ acqua, senza usare il lievito e formulando un rituale magico.

Nell’antica Grecia, chi non poteva procurarsi l’incenso per sacrificare agli dei, bruciava rosmarino che veniva chiamato “pianta dell’incenso”. Anche dagli egizi e dai romani era tenuto in grande considerazione. Pianta governata dal sole, il rosmarino, ha ispirato antiche leggende.

Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta la storia della principessa Leucotoe, figlia del re di Persia, che sedotta da Apollo, intrufolatosi furtivamente nelle sue stanze, dovette subire l’ira del padre, che la uccise per la sua debolezza. Sulla tomba della principessa i raggi del sole penetrarono fino a raggiungere le spoglie della fanciulla, che lentamente si trasformò in una pianta dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido. Da questa leggenda deriva l’usanza degli antichi Greci e Romani di coltivare il rosmarino come simbolo d’immortalità dell’anima; i rami venivano adagiati fra le mani dei defunti e bruciati come incenso durante i riti funebri.

Per gli antichi romani il profumo del rosmarino allietava i defunti e li accompagnava nell’oltretomba, e ancora nel XIX secolo veniva considerata una “pianta del ricordo”: era usanza portare ai funerali rametti di rosmarino, oltre che margherite, fiori di linaria e salvia.

Secondo alcuni il nome latino rosmarinus deriverebbe da “ros marinus”, rugiada del mare, secondo altri da “rosa maris” rosa del mare.

I Sicilia si racconta che tra i rami di Rosmarino sono celate delle figure magiche femminili, esili fatine pronte ad aiutare chi è veramente degno.

Il forte aroma di questo arbusto sempreverde ha una particolare qualità sottile: attirare i ricordi amorosi; per questo motivo veniva usato nei filtri d’amore per incantare il cuore. La sua fragranza aiuta le persone malinconiche a risollevarsi dalla tristezza. In antichi scritti si legge che gli studenti romani facevano uso di coroncine di rosmarino per superare brillantemente gli esami.

Regalarsi un ramo di rosmarino significa dirsi:”Io penso a te!”; il ramoscello, infatti, sembrerebbe avere il potere di mantenere vivo il ricordo della persona che ce lo ha donato.

Nei rimedi dei semplici si legge che un buon infuso fatto con le sommità fiorite del rosmarino può aiutare a rievocare avvenimenti remoti e risvegliare la facoltà perse. Si racconta che un rametto, messo sotto il cuscino, aiuti a sognare mondi fantastici ed allontani gli incubi.

Nel Medioevo veniva usato per scacciare spiriti maligni e streghe durante le pratiche esorcistiche. Per secoli venne usato come fumigante per disinfettare le stanze dei malati. Il decotto di rosmarino serviva per la pulizia delle cucine, lavelli, vasche da bagno. Rametti di rosmarino venivano posti nei cassetti della biancheria, negli armadi per profumare e tenere lontane le tarme.

le giovinette, tempo fa, non usavano ramoscelli di rosmarino solo per sognare, ma veniva anche impiegato per lavarsi i capelli; si mettevano delle foglioline verdi sminuzzate nell’acqua piovana e l’infuso rendeva la chioma più lucida; per combattere la caduta dei capelli ed avere una buona crescita occorre macerare un misto di foglioline di bosso fresche e rosmarino, triturare e lasciare il tutto per quindici giorni in infusione in un litro di alcol puro, filtrare e frizionare sul cuoio capelluto.

La qualità antisettica del Rosmarino è stata riconosciuta fin d’antichità, forse per questo si usava bruciare ed appendere i ramoscelli per allontanare le malattie e pestilenze.

Una volta le partorienti venivano lavate con l’infuso di quest’erba, ed anche il neonato veniva delicatamente deterso con l’acqua precedentemente bollita con foglioline di Rosmarino; questo avrebbe protetto entrambi dalle infezioni.

Nella simbologia cristiana si narra che il Rosmarino abbia preservato la Madonna e Gesù Bambino dall’inseguimento dei soldati, occultandoli tra i suoi rami, mentre fuggivano verso l’Egitto.

A proposito di protezione, ecco una simpatico incantesimo di protezione fisica e spirituale, con varie erbe, tra cui ovviamente il rosmarino: versare in un contenitore a chiusura ermetica un litro di ottima acquavite di vinaccia di circa 45 gradi e tre quarti di litro di acqua distillata; tagliare a fettine due arance fresche e ben mature e due limoni, lasciarli in infusione nel vaso chiuso, esposto giorno e notte all’aperto in modo che possa ricevere la luce solare e lunare.

Il rituale deve iniziare il primo giorno di luna nuova.

Passati quattordici giorni, colare il macerato filtrando il tutto, spremendo le fettine di arancia e di limone che saranno impregnate di grappa.

A questo punto rimettere il liquore ottenuto nel suo contenitore lavato ed asciugato, incorporare le seguenti erbe in trenta grammi per ognuna: enula, issopo, salvia, rosmarino, menta ed angelica. Dopo di che, chiudere accuratamente il contenitore ed esporre il tutto all’aperto per altri quattordici giorni; con la raccomandazione di ritirare il vaso il giorno prima della luna nuova susseguente.

Compiere nello stesso giorno la spremitura accurata delle erbe e la filtrazione del liquore ottenuto, che andrà ripetuta tre volte: al termine, aggiungere due cucchiai di miele di acacia.

Da assumersi in un bicchierino dopo i pasti. E tanti auguri!

Nel simbolismo dei fiori, il messaggio di questa pianticella sempre verde esprime: “sono felice quando ti vedo”. Sembra che portare sul cuore un ramoscello fiorito doni un grande felicità interiore.

Si dice che annusare spesso il suo legno mantenga giovani, mentre ornarsi la testa con una corona di rosmarino aiuta la memoria.

Il rosmarino è uno degli incensi più antichi e possiede dei forti poteri protettivi e purificatori.

Prima di praticare un rituale sarebbe una buona abitudine lavarsi le mani con un infuso di rosmarino.

Il rosmarino attira gli elfi e le sue foglie polverizzate avvolte in una pezza di lino e legate al braccio destro fanno sparire la depressione.

Anche molti rituali di guarigione vengono praticati utilizzando questa meravigliosa pianta, che può inoltre sostituire l’incenso!

La tradizione popolare mediterranea lo ritiene la pianta degli innamorati e di tutti quelli che non vogliono dimenticarsi.

Raccogliete alcuni rametti di rosmarino e legateli con un nastrino di seta azzurra, sul quale avrete precedentemente scritto il vostro nome e quello della persona che desiderate vi ricordi. Preparate un sacchetto di stoffa azzurra e inserite il mazzetto di rami di rosmarino; ponetelo poi sotto il cuscino. E’ di ottimo auspicio se in una delle prime 7 notti, a partire da quella in cui avete preparato l’amuleto, sognerete la persona che vi sta a cuore.

 

Piccole perle:

per fare il vino: far macerare per un giorno due manciate di foglie sminuzzate in un litro di buon vino bianco e quindi filtrare.

Berne un bicchierino prima di ogni pasto in caso di debolezza e inappetenza.

Per il mal di gola fare dei gargarismi con un infuso tiepido o caldo.

Per scurire i capelli: sciacquare i capelli, dopo averli lavati, con un infuso preparato con 3 cucchiai di rametti fogliati tritati, fatto riposare coperto per circa 30 minuti.

 

Subasio con gusto, Un progetto di valorizzazione delle biodiversità dei prodotti e dei cibi del territorio promosso dalla Regione Umbria.

24 marzo 2011

Alla ricerca di alcune specie vegetali, spontanee e commestibili, tipiche del parco del Monte Subasio.
Un recente studio della Facoltà di Agraria dell’Università di Perugia censisce infatti circa

Spello

80 specie di “erbe campagnole” che crescono alle pendici del Monte Subasio. Questo antico sostentamento delle famiglie povere, protagonista di una tradizione culinaria che affonda le radici nella cultura contadina e che oggi viene promosso e riscoperto come ricchezza e risorsa tutta da conoscere e gustare. Il periodo migliore per degustare queste erbe, salutari ed originali nei sapori, è tra fine febbraio e metà aprile, nei primi giorni del risveglio vegetativo primaverile, dopo che le temperature fredde dell’inverno hanno attenuato l’accento amaro che le contraddistingue. Tale occasione rappresenta pertanto una importante momento di riflessione sul valore di tale risorsa naturale e spontanea. Si apre ora un percorso di approfondimento per candidare queste specie vegetali a divenire sempre più una prelibatezza ricercata dal turismo enogastronomico e un ulteriore momento di riconoscimento della qualità ambientale della terra. Una giornata appositamente dedicata a questo intento è Sabato 2 aprile con un’interessante escursione alla scoperta e raccolta guidata delle erbe spontanee.

Programma:

ore 9,00
Partenza da via Bulgarella
Percorso dei sapori lungo
l’Acquedotto Romano
Escursione storico-naturalistica alla scoperta
delle erbe spontanee del Subasio.

Arrivo a Collepino con degustazione di
piatti a base di erbe locali.
Interverrà il prof. Ivo Picchiarelli
Durata 3 ore con rientro in bus.
(Evento su prenotazione, costo €. 10,00 a persona, Info: E. Agneletti 366 2708010 – G. Nucci 335 7657014 – L. Roscini 335 7678911)

ERBE MAGICHE: Timo selvatico (Thymus serpyllum)

18 marzo 2011

di Loriana Mari

Caratteristiche: il timo è una delle erbe più note e utilizzate a scopo alimentare. Appartiene alla famiglia delle Labiate ed è originaria dell’Europa centro meridionale e dell’Asia Occ. Ne esistono numerose specie e sottospecie presenti anche in Italia e tutte simili tra di loro. Comunemente viene chiamato serpillo, sarpullo, pepolino. E’ una pianta aromatica legnosa alla base, prostrata e strisciante, sempreverde alta fino a 25 cm, che forma un intrico fitto di rami serpeggianti, da cui deriva il nome scientifico. I fusti sono sottili e radicanti ai nodi e ramificati con steli fiorali eretti o ascendenti. Le foglie sono piccole, lineari verde scuro, i fiori piccole corolle di color rosa e porpora e compaiono da maggio a settembre.

Proprietà: sono presenti oli essenziali, flavonoidi, tannini e resine. Ha azione digestiva, antispasmodica espettorante ed antisettica; sotto forma di sciroppo è un ottimo calmante per la tosse convulsa dei bambini e per ogni forma di bronchiti catarrali. Per le sue proprietà antisettiche il timo è indicato per lavaggi e sciacqui in caso di infiammazioni delle mucose. L’essenza applicata localmente è indicata contro i dolori della sciatica e quelli reumatici.

Storia, mito, magia: il nome del genere thymus deriva dal greco thymòs  che ha anche il significato di anima, soffio vitale e come altre piante dall’aroma gradevole il timo è un simbolo di morte: in passato si credeva che l’anima dei defunti riposasse nei suoi fiori e che il suo profumo aleggiasse nei luoghi infestati dai fantasmi. Descritto dagli autori più antichi, tra cui il filosofo greco Teofrasto, il timo era conosciuto e ampiamente utilizzato in tutto il Mediterraneo sin dall’epoca degli Egizi che lo impiegavano in particolare per l’imbalsamazione delle mummie. I romani ne ricavavano un vino medicinale che usavano nei sacrifici per gli dei e bruciavano la pianta credendo che i fumi avrebbero tenuto lontano gli scorpioni,  i soldati si bagnavano nell’acqua di timo per infondersi coraggio e vigore. I cartaginesi ne sfruttavano invece le sue proprietà antisettiche e cicatrizzanti per ottenere, mischiandolo al grasso di capra, una crema per arrestare il sangue delle ferite in battaglia. Nel Medio Evo le dame ricamavano spighe di timo nelle insegne dei loro cavalieri affinchè le virtù eroiche della pianta li accompagnassero in battaglia rendendoli forti e invincibili. I crociati lo portavano addosso come simbolo di forza e coraggio. In Gran Bretagna si credeva che il timo fosse la pianta preferita dalle fate. L’erborista Nicholas Culpaper nel XVII° sec. consigliava l’uso del timo selvatico per trattare il sanguinamento interno, la tosse e il vomito. Linneo, naturalista svedese usava il timo per curare le cefalee e i postumi dell’ubriachezza. Il timo assieme alla lavanda, al rosmarino,  e la salvia entrava nel famoso aceto dei quattro ladroni, panacea universale usata soprattutto durante le pestilenze.

Piccole perle: per fare un dentifricio antisettico e disinfettante: amalgamare un cucchiaino di bicarbonato di sodio, uno di carbone di legna o di radice di fragola in polvere e 2-3 gocce di olio essenziale di timo, aggiungere l’acqua  necessaria per ottenere un impasto cremoso e denso, mescolare tutto e utilizzare.

Thè di timo: Prendere un cucchiaino di  timo serpillo per tazza d’acqua bollente, lasciare riposare 8-10 minuti. Indicato nelle infezioni delle vie respiratorie, mal di gola, raffreddori  virali.

Thè di timo:30 gr. di timo serpillo, 10 gr. di radice d’altea, qualche fogliolina di salvia Portare in ebollizione in un litro d’acqua qualche foglia di salvia. Lasciare in infusione per 10 minuti. Questa miscela è indicata nelle infezioni delle vie respiratorie, mal di gola, angina, infezioni bronchiali, raffreddori.

SALVIA COMUNE E L’ACETO DEI 4 LADRI

15 febbraio 2011

di Loriana Mari

Caratteristiche: il genere salvia appartiene alla famiglia delle Lamiaceae ed è particolarmente ricco di specie sia annuali che perenni, usate sia per scopi alimentari che terapeutici. La specie comunemente usata è la salvia officinalis. E’ originaria dell’Europa Meridionale ed in particolare delle regioni del bacino del Mediterraneo ed è stata introdotta nel Nuovo Mondo nel XVII° sec. è diffusa nelle aree temperate dell’intero continente americano. Suffruticosa perenne, dal forte e inconfondibile aroma canforato, sempreverde, alta fino a 50 cm con radici fusiformi, robusta e fibrosa ha fusti legnosi alla base. Ha foglie oblungo-lanceolate verdastre e rugose sulla parte superiore e biancastre nella parte inferiore. I fiori tubolosi, azzurro violacei, sono raccolti in spicastri apicali che compaiono tra aprile e maggio, sono ermafroditi e vengono impollinati dagli insetti. In Italia è spontanea e ampiamente coltivata in tutto il territorio.

Habitat: cresce nei luoghi aridi e fra le pietraie fino ai 500 m slm.

Proprietà: le proprietà aromatiche sono date dall’olio essenziale che le conferisce anche il particolare odore. E’ un ottimo tonico, è antispasmodica e diuretica, si usa nei casi di astenia, per i disturbi epatici, per le infezioni delle vie respiratorie, nei casi di asma e ipotensione. Per le sue doti antisettiche cura stomatiti, laringiti e affezioni della bocca.

Storia, mito, magia: il suo nome deriva dal latino “salvus = salvo” o “salus = salute” che stanno ad indicare le sue innumerevoli virtù. Un celebre detto dei medici medievali della Scuola di medicina salernitana così recita: cur moriatur homo, cui salvia crescit in horto? Come può mai morire l’uomo nel cui giardino cresce la salvia? E fu proprio la Scuola medica di Salerno, la più famosa nel Medio Evo depositaria della conoscenza medica ad aver dato a questa pianta il nome di  Salvia Salvatrix ( salvia che salva). Un famoso proverbio inglese consiglia: chi vuol vivere a lungo deve mangiare la salvia in maggio. La leggenda narra che durante la terribile peste che colpì Tolosa nel 1630, quattro ladri, non tenendo conto del rischio di contagio, entravano nelle case degli appestati, moribondi o morti per depredare le loro ricchezze. Arrestati furono condannati all’impiccagione. Un giudice intelligente e curioso si era però chiesto come facevano a non essersi contagiati, nessuno dei quattro. Li interrogò promettendo loro la grazia se avessero rivelato l’interessante segreto. I ladri risposero che due volte al giorno si bagnavano i polsi e le tempie con un macerato di varie erbe, tra cui salvia, rosmarino, timo e lavanda. Che da quel giorno prese il nome di aceto dei quattro ladri.

Ma i registri del parlamento della città riportano che dopo aver appreso la ricetta, i 4 ladri furono, comunque, impiccati. Un secolo dopo, nel corso di un’altra epidemia, sempre causata dalla Yiersinia Pestis, nell’anno 1720 a Marsiglia, altri ladri depositari del segreto, ma più fortunati dei colleghi tolosani, furono sorpresi, sottoposti a giudizio e liberati in cambio della formula segreta che fu trascritta nel museo della vecchia Marsiglia. Il Codice Ufficiale Francese del Corpo Medico ufficializzò nel 1758 l‘ACETO DEI 4 LADRI, aggiungendo: cannella, acoro aromatico ed aglio dato che alcuni guaritori conoscevano altre composizioni, era utilizzato con successo per preservarsi dai contagi considerato un disinfettante, detergente ed utilizzato anche in caso di sincope, ma scomparve dal Codice nel 1884 con l’avvento della Medicina Moderna. La ricetta, elaborata poi con l’aggiunta di altri ingredienti dall’erborista Ermanno Valli è la seguente: mettere in un vaso un cucchiaio di foglie di salvia triturate; un cucchiaio di foglie di rosmarino triturate; un cucchiaio di foglie di timo o serpillo (timo selvatico) triturate; un cucchiaio di foglie di fiori di lavanda triturati; uno spicchio d’aglio schiacciato. Queste le erbe usate già nel medioevo. Si possono aggiungere: un cucchiaio di foglie di noce triturate; un cucchiaio di foglie di alloro triturate; un cucchiaio di chiodi di garofano schiacciati; una stecca di cannella schiacciata; un cucchiaio di lichene islandico triturato; un cucchiaio di ginepro (ramoscelli e bacche) triturato. Si ricopre il tutto con 1 litro di buon aceto bianco o rosso, si macera per sette giorni e infine si filtra. Questo aceto ha proprietà antisettiche, da solo contiene sette proprietà di antibiotici. Se preparato a freddo può essere conservato a lungo. E’ utile per prevenire le malattie virali ed epidermiche (due gocce ai polsi e alle tempie mattino e sera come i famosi ladri). Nel caso di malattia si può assumere un cucchiaino di aceto diluito in acqua 3 volte al giorno. Sono indicati anche i pediluvi diluendo ½ bicchiere di aceto antisettico in due litri d’acqua. Oggigiorno, le capacità curative di tutti i componenti sono riconosciute: antisettiche, antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antinfiammatorie, vermifughe, carminative, calagoghe, febbrifughe, insettorepellenti, antiveleno, stimolanti, vulnerarie e bechiche. Una leggenda cristiana invece, narra perché a questa pianta venissero attribuite tante virtù: quando la Sacra Famiglia fuggì in Egitto, solo la umile piantina di salvia accettò di nascondere Gesù Bambino dalla vista dei soldati, allora la Madonna la benedì e gli fece dono delle sue qualità terapeutiche. Essa rientrava tra le erbe che gli antichi Egizi usavano per l’imbalsamazione e le attribuivano la proprietà di rendere fertili le donne e la usavano contro la peste. Era considerata afrodisiaca tanto che la regina Cleopatra ne avrebbe fatto uso per conquistare gli uomini. I Greci vietavano l’assunzione di vino, estratti e bevande a base di salvia per evitare l’effetto”doping”. Teofrasto della pianta diceva che respinge i mali della malattia e della vecchiaia. Presso i romani era considerata sacra e simbolo di vita, veniva utilizzata come panacea universale e la usavano anche per regolare i cicli mensili delle donne (credenza in seguito fondata dalla scoperta di un estrogeno che regola la fecondità). Essi organizzavano un evento importante al tempo della raccolta, che avveniva sempre con attrezzi di metallo più nobili del ferro. Plinio la raccomanda contro i morsi di serpente e scorpioni purchè non fosse infettata. Alla salvia sono sempre stati riconosciuti poteri particolari: le sue foglie secche bruciate come incenso purificano gli ambienti e le persone che vi dimorano e proteggono da influssi negativi, gli indiani d’America la usano durante le cerimonie sacre. Nel Medio Evo si credeva avesse il magico potere di donare all’uomo la longevità e la saggezza. Si usa per tutte le attività che riguardano la fortuna, la buona salute, la saggezza, la longevità, la protezione la guarigione e la realizzazione dei desideri; occorre polverizzarla e mescolarla alle candele gialle preferibilmente di mercoledì e di luna crescente. Le foglie di salvia elaborate secondo precisi rituali venivano utilizzate per difendersi dagli incubi notturni.

Alcuni detti popolari vogliono che nelle case dove la salvia cresce bella e forte sia la moglie a spadroneggiare, mentre se la pianta di salvia che si ha nel giardino muore  gli affari andranno male. Nel Veneto si dice che quando muore la salvia nell’orto muore anche il padrone di casa se non è già morto. Si ritiene che come il rosmarino stimoli la memoria e sia utile per il cervello, un tempo era anche usata per alleviare le emicranie. Ai fiori della salvia è attribuito il significato di salvezza ispirato ovviamente dalle molteplici proprietà medicinali.

Piccole perle:

Vino di salvia: mettere in un lt di vino rosso 30 gr di foglie di salvia e lasciar macerare per 7 giorni , dopo di che filtrare e conservare in bottiglia. Si consiglia di berne due bicchierini al giorno come digestivo, tonico e antireumatico.

Infuso: un gr di foglie di salvia in 100 ml di acqua bollente, lasciare in infusione per dieci minuti, berne una tazzina  al giorno, se si vuole si può aggiungere miele e scorzetta di limone, contro l’asma e la tosse.

Per le gengive arrossate e per le affezioni della gola fare sciacqui e gargarismi con l’infuso.

Grappa alla salvia: alcuni rametti di salvia freschi, un (1) litro di grappa e 50 grammi di miele. Macerare per 20 giorni i rametti di salvia in 1/4 (250ml) di grappa dentro un vaso di vetro chiuso agitando di tanto in tanto. Trascorso questo tempo si filtra e si unisce il filtrato alla grappa rimanente nella quale, precedentemente, sarà stato disciolto il miele.

Le foglie fresche, sfregate sui denti, li puliscono e purificano l’ alito.

Per preparare un ottimo dentifricio: mescolare 6 gr. di salvia polverizzata con 10 gr. di carbonato di calcio in polvere e 5 gr. di bicarbonato di sodio in polvere. Il miscuglio viene infine amalgamato con argilla verde.

La Magia delle Erbe: il Papavero

9 febbraio 2011

di Loriana Mari

Caratteristiche: pianta erbacea annuale che appartiene alla famiglia delle papaveracee. Originaria dei paesi del Mediterraneo orientale, in Italia  è assai diffusa, è infestante dei campi di cereali, ma presente anche in ambienti ruderali, lungo i margini delle strade e nei campi incolti fino ai 1800 mt slm. Ha radici fibrose a fittone che sostengono fusti eretti ramificati e setolosi lunghi fino a 60 cm, che contengono un lattice biancastro dal potere narcotico e dal sapore aspro. Le foglie di forma ellittica allungate sono divise in lobi lanceolati acuti e dentati. I fiori solitari di colore rosso scarlatto con centro scuro hanno macchie porpora. I frutti sono capsule che contengono semi reniformi.

Proprietà: il comune papavero rosso o rosolaccio è utilizzato da sempre per le sue proprietà sedative della tosse, che calmano gli spasmi favorendo anche l’espettorazione, inoltre facilita il sonno. Nonostante la stretta parentela con il papavero da oppio (Papaver sonniferum), da cui si estrae la morfina, il rosolaccio è un erba che alle dosi consigliate e per tempi brevi, non presenta alcun pericolo, anzi è tradizionalmente usata nei bambini in ragione del suo modesto contenuto di alcaloidi. Infatti il suo lattice come la roeadina, non ha azione allucinogena, ma calmante e narcotica. I semi contengono un olio grasso, acido lucoleido, acido oleico. Un tempo veniva usato come colorante per la presenza degli eutociani.

Storia, mito, magia:  il nome deriva dal celtico “papa”che significa pappa, per l’uso che se ne faceva di mescolarlo alla pappa dei bambini per sedarli, “rhoeas”deriva da reo, cado, per i petali che cadono facilmente. Il suo nome viene usato dai francesi per indicare il canto del gallo che poi divenne “coquerico”, in francese papavero si dice coquelicot o coquerico  e corrisponde all’italiano chicchirichi, dato che la sua forma e il colore (cocum in latino) scarlatto, ricorda la forma e il colore della cresta del gallo. Era conosciuto già nell’antichità, nel 3000 a.c i Sumeri lo veneravano come pianta sacra e lo usavano come colorante naturale e come medicinale. Gli Egizi lo utilizzavano come antidolorifico, mentre in Grecia essendo i semi di papavero considerati portatori di forza  e salute, gli atleti ne bevevano una pozione energizzante prima delle gare, a base di vino e miele. Le sue virtù medicinali per combatter i disturbi del sonno e i dolori gastrici erano note già presso i Galli, ma anche presso tutti i popoli celtici d’Europa, Latini e Greci. Cerere, la dea romana dei campi e delle messi,  è sempre raffigurata con una ghirlanda di papaveri, fiori che da sempre affiancano le colture di frumento.

Viene considerato anche il fiore della consolazione. Infatti per alleviare i tormenti di Demetra, la Dea Madre della terra fertile e delle messi, la cui figlia Persefone  era stata rapita da Ade, Hypnos le offrì dei papaveri che le permisero di ritrovare il sonno e di consolarsi del suo dolore.

Ovidio descrive il regno del Sonno come un antro  nascosto davanti al quale spunta un rigoglioso cespuglio di papaveri e di altre erbe di cui la Notte “spreme il sapore” per poi spargerlo sulle terre immerse nel buio. In genere tutte le divinità legate al sonno e ai sogni, come Morfeo o Notte, hanno come attributo il papavero, che finisce per essere associato al sonno eterno e quindi alla morte.

Il papavero di cui parlano gli antichi è sicuramente il Papaver somniferum, ossia l’oppio, originario dell’Asia ma introdotto nel Mediterraneo in epoche lontanissime.

Livio racconta un curioso aneddoto: Tarquinio il Superbo era in guerra con la città di Gabi, ma non riusciva a conquistarla, così decise di ricorrere ad un inganno. Abbandonò la guerra e parti con tutti i militari, lasciando a Gabi il più giovane dei suoi figli Sesto. Questi simulò di essere scappato  dal padre perché in disaccordo e chiese ospitalità alla città. Gli abitanti di Gabi accettarono e in breve tempo ottenne la loro fiducia, allora mandò a chiamare un messo del padre per sapere cosa fare. Tarquinio ricevette il messo nel suo giardino e apparentemente non diede nessuna risposta, limitandosi a recidere le teste dei papaveri più alti che crescevano nell’erba. Sesto capi ed eliminò tutti i personaggi più importanti della città così che  gli animi degli altri cittadini si impaurirono e in segno di resa portarono doni. Gabi si ritrovò senza accorgersene preda di Roma. Ancora oggi si usa l’espressione “alti papaveri” per  riferirsi alle persone più autorevoli. Il fiore è simbolo dell’aspetto effimero della vita, perché delicatissimo e una volta colto appassisce rapidamente. Rappresenta anche la fiamma della passione che si estingue rapidamente se non se ne ha cura. Nella simbologia cristiana il fiore per il suo colore rosso sangue viene associato alla passione di Gesù e, poiché cresce perlopiù nei campi di grano è anch’esso considerato un simbolo di Gesù, perché rimanda al pane e quindi all’Eucarestia. Il papavero che appare di solito nei dipinti è il papavero comune.

Piccole perle: per preparare una tisana di papavero comune dei prati, si usano 5-20 gr di petali essiccati, su cui si versa acqua bollente. Si lascia riposare per circa dieci minuti si filtra e si beve. Ha azione sedative e calmante della tosse.

 

 

 

Pungitopo o Ruscus aculeatus

6 Maggio 2010


di Loriana Mari

Caratteristiche:
Il suo nome scientifico è Ruscus aculeatus e appartiene alla famiglia delle Liliacee. Si caratterizza per le sue foglie dure e con le spine, simbolo di forza e prevenzione contro tutti i mali. Ha delle strutture, che pur simili a foglie, sono fusti appiattiti (cladodi) che hanno sviluppato funzioni simili a quelli delle foglie, essendo anch’essi fotosintetici. I fiori maschili e femminili si trovano su rami diversi portati al centro dei cladodi. Il frutto è una bacca globosa, rosso brillante, contenente uno o due semi. I giovani germogli possono essere mangiati, avendo sapore simile a quello dell’asparago.

Habitat: Diffuso in tutta Italia, è un cespuglio molto ramificato con fusti finemente solcati, può formare il sottobosco di foreste mediterranee.

Proprietà: Le radici del pungitopo vengono raccolte tra settembre e novembre, il rizoma viene pulito ed essiccato al sole. La radice e il rizoma del pungitopo contengono saponine steroidi, dall’azione vasocostrittrice e antinfiammatoria, e rutina, che ha azione protettiva dei capillari. Il rizoma è proteico e diuretico. Il pungitopo è commestibile e si può mangiare come frittata

Storia, leggenda, mito e magiail pungitopo, al pari dell’agrifoglio, è considerato portatore di fortuna. Le bacche rosse sono il simbolo del Natale, il simbolo della luce e del buon auspicio, una promessa di abbondanza e fecondità per il nuovo anno che comincia. Secondo la leggenda, le foglie spinose rievocano le spine della corona di Cristo e le bacche il rosso del suo sangue. Il nome “pungitopo” deriva dall’usanza contadina di proteggere dai topi con mazzetti di questa pianta, i salumi e i formaggi messi a stagionare.

Zafferano, dall’arabo za’ faran

4 Maggio 2010

zafferano o croco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Loriana Mari

 

Loriana Mari

Caratteristiche: è  una pianta erbacea perenne, che appartiene alla Fam. Delle Iridacee. Alta dai 20 ai 50 cm possiede un bulbo tubero da cui si sviluppano in autunno le foglie e i fiori violetti.

La spezia si ottiene dagli stimmi filiformi del fiore, che vengono raccolti a mano. Originario probabilmente di Creta e coltivato inizialmente in Asia Minore, oggi lo zafferano viene prodotto in Spagna, Francia, Italia, Turchia, Iran, Marocco e Kashimir.

Habitat: E’ una pianta bulbosa precocissima che cresce nei boschi radi e molto fertili, i prati concimati e i pascoli, dove può godere di un po’ di sole. Fiorisce già a febbraio e produce fiori violacei e bianchi con la gola gialla.

 Storia, Leggenda, mito, magia: Apprezzato come aromatizzante e colorante da oltre 4000 anni, lo zafferano è la spezia più costosa che esiste al mondo: occorrono 150.000 fiori e 400 ore di lavoro per produrre 1 kg di droga secca.

Il suo nome deriva dall’arabo za’ faran (che è giallo), in relazione al colore che dava ai cibi e alle stoffe.

Il croco, fiore infero è collegato alla sfera funeraria fin dall’epoca micenea, esso veniva impiegato per utilizzi sacri, come ci è testimoniato da Stazio, che documenta l’uso di bruciarlo nel rogo dei personaggi pubblici più eminenti. In relazione ad Ecate, esso viene nominato  come uno dei fiori raccolti dalla già citata Kirke nel giardino incantato della dea. Questa maga appartiene alle tradizioni mitiche delle primitive culture mediterranee: essa è figlia del Sole e signora delle piante, dalle quali trae gli elementi per la preparazione dei suoi filtri portentosi. Il fiore in questione, infatti, può sortire anche effetti afrodisiaci e addirittura letali, diventando un potente venenum, termine proverbialmente associato alla magia assieme a quello di  philtrum  e a quello di  carmina,  le parole magiche, come quelle (hecateia carmina) ricordate da Ovidio.

Riguardo al suo uso sacrale, c’è da ricordare infine l’associazione del croco al culto di Artemide e di Apollo (entità che, come abbiamo già sottolineato, erano in stretta relazione simbolica con Ecate), di cui adornava gli altari durante i riti celebrati in suo onore a Cirene. Qui è importante, tuttavia, mettere in evidenza il suo legame con la morte o, per meglio dire, lo stretto rapporto terra – morte- vegetale, tipico delle culture agrarie. La stessa origine mitica del crocus sativus si ricollega alla sfera semantica della morte: secondo la tradizione più accreditata, esso è nato dal sangue di Krokos, “l’eroe del Croco”, ucciso involontariamente da Hermes mentre giocava al disco. A conferma di quanto appena detto, esso si associa anche a un culto tombale che aveva luogo nel corso dei misteri eleusini. Il suo colore si lega invece al mondo femminile: Ovidio descrive come giallo zafferano la veste del dio Hymen che presiede ai riti nuziali. Sarà dello stesso colore il drappo degli officianti delle cerimonie funerarie: si riconferma nuovamente il legame tra l’unione-generazione (matrimonio) e la morte (funerale).

Proprietà: Lo zafferano possiede particolari proprietà analgesiche, digestive, sudorifere, calmanti e carminative. Svolge una benefica attività contro la depressione, stimola la circolazione, cura i disturbi urinari e digestivi, in Cina viene usato per curare le malattie del fegato.

 Utilizzo: Per fare un profumo allo zafferano occorre mettere in una bottiglia di vetro con tappo 50 ml di alcool etilico e 44 gocce di olio essenziale  di bergamotto, 15 gocce di olio essenziale  di limone, 4 gocce di olio essenziale  di curali, 1 goccia di olio ess di lavanda, 1 goccia di olio essenziale  di rosmarino e 2 pizzichi di zafferano. Agitare prima dell’uso.

CELIDONIA (chelidonium majus)

25 febbraio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche:     pianta erbacea perenne con rizoma ramificato lungo circa 10 cm con fusto bruno rossiccio, l’interno è giallo, il fusto è eretto, ramificato con nodi ingrossati e provvisto di peli. La pianta contiene un lattice ad azione caustica. Le foglie sono alterne con 2-5 paia di foglioline di color verde cinereo, mentre la superficie inferiore è più chiara. I fiori opposti alle foglie sono riuniti in ombrelli e sono di un bel giallo oro. Il frutto è una capsula allungata di circa 5 cm che contiene semi ovoidali neri lucenti, punteggiati di chiaro e con un ingrossamento carnoso bianco, la pianta è velenosa.

Habitat: cresce comunemente nei ruderi, lungo le strade, nei terreni incolti e ombrosi.

Proprietà: il lattice che sgorga dalla pianta fresca spezzata è caustico sulla pelle e viene comunemente impiegato per la cura di porri e vesciche, è chiamata anche erba dei porri.

Storia, mito, leggenda e magia: anticamente si credeva che, i rondinini tardassero ad aprire gli occhi e che la loro madre raccogliesse un erba speciale che mangiata a poco a poco, aiutasse i rondinini a vedere. La celidonia, in greco chelidon, che significa rondine. Così scriveva Plinio il Vecchio: “con questa erba le rondini curano gli occhi dei loro piccoli e restituiscono loro la vista anche se gli occhi gli sono stati cavati”. Si era diffusa una credenza popolare secondo la quale la rondine, prima di allontanarsi dal nido accecava i piccoli che volessero uscirne e al ritorno rendeva loro la vista grazie a questa erba miracolosa. Per gli alchimisti del Medio Evo era un ingrediente indispensabile per la fabbricazione della pietra filosofale, la chiamavano il dono del cielo (coeli donum), perchè ritenuta dotata di poteri soprannaturali fa parte delle erbe magiche di S. Giovanni con  la quale si preparavano talismani, oli e il sale per essere usati nei riti magici nelle notti di luna piena. Messa sotto lo zerbino allontana per sempre i falsi amici e gli invidiosi. Si crede anche che una goccia del suo latte lasciata cadere in un dente cariato calmi il dolore, in Friuli è chiamata erba di S. Apollonia la santa che protegge dal mal di denti. In passato si riteneva potesse curare gli occhi. Aiutasse la bile e le occlusioni di fegato e milza, curasse il cancro, le fistole e le piaghe ulcerose. Alcuni poeti hanno cantato e celebrato la bellezza e la delicatezza di questa pianta, Ezra Pound scrive: “… volò da questo monte il seme – e ogni pianta è piena di seme sinchè – la donnola mastica la ruta – e la rondine la celidonia…”

William Wordswort scrive: “… c’è un fiore, la minuscola celidonia che si ripiega su se stessa – come molti altri per il freddo e per la pioggia – e al primo raggio di sole – brilla come lo stesso sole, si riapre, torna fuori – di nuovo si rianima.

CICLAMINO, (ciclamen porpurescens o europaem)

6 febbraio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche: originario della Grecia, del Medio Oriente e dell’Africa, il ciclamino deve il suo nome dal greco kyklos, che significa cerchio, per il particolare movimento dello stelo.

Habitat: Cresce nei terreni ricchi di humus dei boschi, nei luoghi freschi, vicino ai torrenti e tra le rocce. Li puoi trovare nei boschi di lecci delle nostre regioni meridionali Il ciclamino è una pianta che cresce allo stato spontaneo in tutti i Paesi che si affacciano sul  bacino del Mediterraneo, ed anche in Paesi molto lontani come la Somalia e l’Iran.

Il tubero di questa pianta è tossico.

Fiorisce alla fine di gennaio e febbraio.

Storia, leggenda e magia: secondo un’antica leggenda (così narra Plinio il Vecchio), i luoghi in cui viene piantato il ciclamino sarebbero immuni da malefici e filtri nefasti. Così si attribuì a questo fiore la proprietà di guarire dal morso dei serpenti. Secondo alcuni era sacro ad Ecate, divinità dell’oltretomba, che presiedeva ad incantesimi e magie. Il ciclamino vivo influenza i centri di energia vitale; tenendo questa pianta  nella propria casa si avranno grandi benefici per l’ispirazione e la sicurezza di sé.

In epoca cristiana la pianta divenne attributo di Maria, dove le macchioline rosse che spesso sono all’interno del fiore simboleggiano il suo dolore per la morte del Figlio sulla croce.

ll profumatissimo ciclamino, analogamente alla Mandragora, è detta “Pianta di Ecate” o “Pianta del diavolo”, sottolineando come Ecate sia spesso vista, erroneamente, collegata ad un’entità negativa come Satana che è stata inventata dal cristianesimo e, quindi, molto successiva alla nascita di  Ecate.  E’ una pianta nota fin dall’antichità. La sua bellezza e le sue forme avevano già colpito la fantasia degli antichi, i quali elaborarono su di esso molte leggende, che si sono tramandate fino ai nostri giorni.

Gli antichi greci attribuivano al ciclamino una valenza magica per la forma tondeggiante del tubero e per la tendenza del gambo del fiore ad attorcigliarsi a spirale quando il fiore è fecondato. Gli antichi greci “leggevano” in queste forme “circolari” una affinità con il cerchio, inteso come figura magica perchè rappresenta l’universo, nel suo eterno ciclo di rinnovamento. Dunque, una pianta con quella forma diventava una pianta dalle virtù magiche. Il nome stesso del ciclamino si ispira a questo aspetto “magico”,  deriva dalla parola greca kyklos, cerchio.

La leggenda più famosa sul ciclamino ci è stata tramandata da alcuni scritti di un famoso naturalista greco, Teofrasto, vissuto nel III secolo a.C. Secondo Teofrasto, il ciclamino propiziava l’amore e la sensualità. Probabilmente Teofrasto aveva ricondotto la forma rotondeggiante e compressa ai poli del tubero all’utero femminile, associando così la pianta al concepimento. Questa credenza risultava inoltre rafforzata da una antica usanza, quella di adornare la camera dei giovani sposi con piccoli mazzi di questo fiore, in chiaro  augurio di fertilità.

Il ciclamino aveva colpito l’attenzione dei suoi antichi osservatori anche per un altro motivo: è una pianta velenosa. Nel tubero del ciclamino è presente un glicoside chiamato ciclamina, velenoso per l’uomo, ma non per alcuni animali. Anzi, il tubero di ciclamino è noto anche con il nome di pamporcino perchè è particolarmente appetito dai maiali. La presenza del veleno ha contribuito ad alimentare la leggenda del ciclamino come pianta dalle virtù magiche. Infatti, nell’antica Grecia il ciclamino era sacro ad Ecate, divinità lunare delle magie e degli incantesimi. Si era soliti piantare questi fiori intorno alle abitazioni  perchè si credeva che proteggessero dai malefici, e si usava l’estratto di ciclamino come rimedio contro il morso dei serpenti velenosi.

Questa doppia valenza del ciclamino, pianta di indiscutibile bellezza ma velenosa, pianta di vita e di morte, ha fatto sì che il ciclamino, nel linguaggio dei fiori, simboleggiasse la diffidenza.

Una volta i contadini mettevano a cuocere sulla brace   il tubero   del ciclamino   incavato    e riempito d’olio, che poi usavano per calmare il mal d’orecchie. Il tubero torrefatto   perde la sua tossicitá, fornisce  fecola usata come sostanza alimentare per animali. Questa un tempo era utilizzata perfino dall’uomo, per questo la pianta era  anche  detta  pan terreno.

Iperico (Hypericum perforatum)

18 gennaio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche: uno dei nomi dell’iperico è millebuchi, perché, se guardato controluce, le sue foglie sono tutte bucherellate. Piccolo arbusto, dall’odore balsamico, che cresce nelle zone temperate di tutto il mondo. È ben riconoscibile anche quando non è in fioritura perché ha le foglioline che in controluce appaiono bucherellate, in realta sono piccole vescichette oleose da cui il nome perforatum. Le foglie sono opposte oblunghe. I fiori giallo oro macchiettati di nero ai margini hanno 5 petali delicati. Sono riuniti in pannocchie che raggiungono la fioritura massima verso il 24 giugno (ricorrenza di San Giovanni) da cui il nome popolare.

Proprietà: in erboristeria viene considerato un ottimo cicatrizzante e antispasmodico, oltre ad essere un eccellente rimedio contro gli eritemi e le scottature solari.

Alcuni studi clinici hanno dimostrato che l’iperico ha un’efficacia paragonabile ad alcuni psicofarmaci nella cura della depressione lieve e moderata. Il principio inizialmente ritenuto attivo era l’ipericina, ma i recenti sviluppi hanno chiarito che molte classi chimiche sono da considerarsi corresponsabili dell’attività: naftodiantroni (ipericina, pseudoipericina), floroglucinoli (iperforina), flavonoidi (amentoflavone), ed altri composti con probabili effetti di sinergia sia farmacodinamica sia farmacocinetica.

Habitat: in Italia è comune e cresce spontaneo negli incolti e lungo i margini di strade e sentieri, soprattutto su suoli calcarei, fino a 1600 m slm. Preferisce boschi radi e luminosi. Diffuso in tutte le regioni d’Italia, originario dell’arcipelago britannico,oggi in tutto il mondo. Predilige posizioni soleggiate e asciutte come campi abbandonati ed ambienti ruderali.

Storia, leggenda, mito e magia: l’uso dell’iperico si fa risalire ad Ippocrate, Dioscoride, Galeno e Plinio il vecchio, soprattutto come unguento per guarire la sciatica, ferite e ustioni.

Nel 1500 Paracelso le attribuì proprietà curative che, secondo la teoria delle segnature, la struttura forata delle foglie e il fatto che la pianta si colora di rosso, come il sangue, è adatta a curare le ferite. Inoltre ai suoi semi si attribuiscono le proprietà di “cacciar fuori le pietre dai reni e vale contro i morsi degli animali velenosi”

E’ conosciuta anche come erba di S. Giovanni perché fiorisce nel periodo del Santo, è chiamata anche scacciadiavoli poiché la tradizione popolare gli attribuiva poteri magici: si riteneva che allontanasse gli spiriti maligni e veniva utilizzato anche per purificare l’aria, infatti se schiacciato emana un gradevole profumo di incenso.

E’ una pianta molto efficace contro gli incantesimi, perché offre una vera protezione dalle fate. Essendo un simbolo del sole fu assai usata nella festa pagana del solstizio d’estate. Se si strofinano i petali gialli tra le mani colorano la pelle di rosso, probabilmente fu proprio questa particolarità a generare nel Medioevo la diceria popolare per cui l’iperico è uno strumento utile per la lotta contro il diavolo, un amuleto che teneva lontano anche gli spiriti cattivi. Motivazioni più serie hanno spinto a chiamare questa pianta “erba di S. Giovanni”. Si racconta infatti che i Cavalieri dell’ordine di S. Giovanni si curassero le ferite delle battaglie crociate  con il succo estratto dalle sue foglie.

Sin dai tempi più remoti l’Iperico è stato adoperato per allontanare gli spiriti malefici ed i demoni. I popoli del Nord ne appendono dei rametti sulle pareti e le finestre di casa come amuleto protettivo e portafortuna. Dominato dal Sole, l’Iperico è una pianta sacra al Dio nordico Balder.

La pianta è caricata auricamente oltre che per sua proprietà, anche dalla tradizione popolare, pertanto se tenuta in casa è una difesa contro le negatività. Invece non tutti sanno che l’iperico se è  raccolto di martedì  e di venerdì è di grande auspicio per i militari sia di ruolo che di leva. Deve essere portato addosso in un sacchettino di lino bianco e ricambiato ogni sei mesi. Dona forza e coraggio ed è potente come protezione contro le armi da fuoco, se portato con sé in un sacchettino di seta verde smeraldo durante la stagione invernale allontana i raffreddori e la febbre.

Piccole perle: uso esterno per piaghe e ustioni.

Decotto: 5 gr in 100 ml di acqua, fare lavaggi e applicare compresse imbevute. Olio: 30 gr in 100 ml di olio di oliva, aggiungere 10 gr di vino bianco e lasciar macerare al sole per 15 giorni agitando di tanto in tanto, filtrare e mettere sulle parti interessate.

MANDRAGORA (Mandragora Officinarum) Fam. Solanaceae

18 dicembre 2009

Loriana Mari

di Loriana Mari

Caratteristiche: la Mandragora è una piantina piccola , può raggiungere i 5 cm di altezza; in primavera assume una colorazione giallo verde . Queste piante non sono sempreverdi, quindi perdono le foglie per alcuni mesi all’anno. La Mandragora officinarum è una pianta per giardino roccioso.

Pianta erbacea perenne rosulata, di odore fetido, con grossa radice nerastra a fittone, spesso biforcuta e ramificata in modo ad aver un aspetto vagamente antropomorfo. Fusto nullo o brevissimo. Foglie tutte in rosetta basale, picciolate, glabre rugoso-reticolate, a lamina oblanceolato-spatolata alla fioritura, successivamente allungate, ondulata al margine e con l’apice acuminata, la venatura centrale ispessita. I fiori ermafroditi attinomorfi inseriti al centro della rosetta, con peduncoli pubescenti di 1,5-2 cm, accrescenti nella fruttificazione. La corolla è azzurro-violacea pallida a nervature reticolate e con tubo imbutiforme con lobi triangolari. Il frutto è una bacca elissoide giallo-rossastra contenente numerosi piccoli semi.

Habitat Specie con areale limitato alle coste mediterranee, (area dell’Olivo), negli incolti aridi, preferibilmente su suoli calcarei soleggiati, da 0 a 600 m. Presente, ma non comune, in Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, comprese le isole minori attinenti. Non più segnalata in Campania e Abruzzo, dubbia in Lazio.

Proprietà: Pianta estremamente tossica che contiene un complesso alcaloideo ad azione simile a quella dell’atropina, dello josciamina e della scopolamina, presenti anche in Atropa belladonna e Hyoscyamus niger, viene usata nella cura degli spasmi intestinali e nell’omeopatia come rimedio sedativo nei casi di asma e tosse.
Moderatamente dosata viene ancora utilizzata come preanestetico e sedativa, è antisettica la sua assunzione in dosi massicce provoca tachicardia, pressione alta, nausea, allucinazioni, vomito, diarrea, convulsione anche la morte.

In effetti la pianta contiene alcuni principi attivi (ioscina, atropina, mandragorina e iosciamina) che producono una specie di stato ipnotico nell’individuo, simile a quello riscontrabile nella fase REM del sonno, cioè quella in cui si sogna. La radice, una volta polverizzata e sciolta nel vino, in quantità di circa trenta granuli, produceva questi effetti, e la sua azione veniva intensificata con la mescolanza ad altre droghe. A chi avesse comunque usato o abusato di questa pianta, un antico codice del Cinquecento descrive la malattia ed il rimedio: “Colui che haverà bevuto il sugo della mandragora coi suoi frutti o la radice patirà rossezza di viso, d’occhi, stupidezza di mente et alienazione e pazzia e sonno profondo. La sua cura e prendere la triaca magna, distemperata nel vino, ma che sia subito tardargli il mangiare per un giorno e beva del vino eccellente puro e fiuti l’aceto gagliardo”.

Storia, mito, magia: Il nome del genere è assonante con il persiano “mandrun-ghia“, erba-uomo, che allude alla forma antropomorfa delle radici. La forma greca, ‘mandragoras‘, si trova già negli scritti di Xenofon e Teofrasto. Le testimonianze sulla mandragora e sul suo uso medicamentoso attraversano la storia delle erbe a partire dall’antica Grecia, e nella maggior parte dei casi concordano sulla sua capacità di causare un sonno profondo e ristoratore, sia che venga semplicemente posta la sua radice nella camera dove il paziente dorme, sia che venga mescolata al cibo, cotta nel vino; un’altra sua caratteristica e quella di fungere sia da afrodisiaco, in senso di stimolante sessuale dopo l’ingestione, che da amuleto atto a portare buona sorte nelle faccende amorose; in questo caso la radice intagliata secondo un modo particolare. Nota, infine, la sua capacità di “combattere” la sterilità: tanto e vero che addirittura la Genesi, uno del libri della Bibbia, ne parla, a proposito:

Ma nonostante questa evidentissima tradizione, i commentatori della Genesi notano che Dio non aveva mai benedetto la mandragora, dal momento che Rachele restò sterile e solo dopo sette anni poté concepire il proprio figlio Giuseppe. Possiamo quindi immaginare la fama sinistra che la mandragora acquistò con il tempo e soprattutto nel Medioevo, periodo in cui le sue qualità vennero particolarmente apprezzate, e che vide il moltiplicarsi delle leggende sia per quello che riguarda la sua nascita, sia per la sua raccolta che per il suo uso. Nel 1518, Niccolò Machiavelli scrisse una commedia burlesca, intitolata appunto la Mandragola, in cui la tradizionale capacità della pianta di essere un antidoto contro la sterilità, e l’altrettanto tradizionale potere venefico diventano nelle mani dell’autore il meccanismo adatto a far si che Callimaco, innamorato della moglie di Messer Nicia, la bellissima Lucrezia, possa finalmente amarla. Poiché la donna è sterile viene consigliato al marito di utilizzare la pianta; ma dal momento che la donna che piglia questo antidoto diventa “velenosa”, si consiglia all’uomo di lasciare che sia un altro a far l’amore con lei, per estirpare il maleficio. Inutile dire che sarà Callimaco stesso travestito a farlo.

La mandragora comunque è presente nelle novelle di Boccaccio e di Sacchetti, è più volte citata in Shakespeare. La si trova nel Faust di Goethe, e in autori del XIX secolo quali Hoffmann e Nadier. Nella letteratura minore italiana la troviamo nell’Incantesimo di Giovanni Prati, nell’ultima strofa della fiaba di Azzarellina: Làmpane graziose giran la verde stanza; e, strani amanti e spose, i gnomi e le mandràgore coi gigli e con le rose escono in danza. La mandragora arriva a noi dalla credenza popolare, dalla letteratura, dalla medicina che l’ha ampiamente utilizzata, soprattutto per i suoi effetti narcotici ma anche dal teatro e dal cinema.

Secondo alcuni la mandragora nasce principalmente dallo sperma che l’impiccato emette negli spasmi dell’agonia, e va quindi ricercata preferibilmente nei luoghi dove sono avvenuti questi supplizi: nei crocicchi o nei cimiteri.

Secondo altri, a causa della sua particolare similitudine con la forma umana è  più che le altre piante preda del demonio, e si raccomanda quindi chi desidera consumarla di pregare prima il Signore. Secondo altri ancora, a causa della pericolosità di questa pianta non bisogna toccarla con le mani, ma legarla con un laccio ad un cane e spingere l’animale a muoversi finché non la strappi dal terreno. Il cane è un chiaro simbolo riconducibile ad Ecate, divinità degli inferi, spesso rappresentata con tre teste, fra le quali una di cane ed è Ecate che invia agli uomini sogni angosciosi, che è protettrice delle streghe, che ingenera follia, gradirà il sacrificio del cane, inviato a lei dalla pianta che ingenera follia.

Agrifoglio(Ilex aquifolium)Fam. Aquifoliacee

17 novembre 2009

 

di Loriana Mari

Caratteristiche: albero a chioma stretta e conica, presenta ramificazioni regolari da giovane che diventano disordinate con l’età, può raggiungere i 20 m di altezza. Le foglie sono lucide, lucenti persistenti in inverno, lunghe fino a 10 cm con apice e margini spinosi. I frutti sono bacche rosse larghe e polpose, molto appetite dagli uccelli ma velenose per l’uomo.

Habitat: originario dell’Asia Occ. e dell’Europa vive nei boschi foggio e di quercia. L’agrifoglio è una specie spontanea dell’Europa centroccidentale con un vasto areale che va dalle coste atlantiche e mediterranee alle regioni costiere dell’Asia Minore. Si trova preferibilmente nelle regioni con clima oceanico, caratterizzate da piovosità accentuata, limitata siccità estiva ed escursione termica moderata, dove cresce in boschi umidi di latifoglie, con preferenza per i terreni acidi. In passato si trovava spesso associato al tasso (Taxus baccata) a costituire una fascia quasi continua sulle Alpi e sull’Appennino al limite della faggeta. Ora l’agrifoglio si concentra nei boschi medio montani delle nostre regioni centromeridionali e nelle isole, specialmente in querceti, boschi misti di leccio e caducifoglie e faggete. Ha tronco diritto rivestito da corteccia verde-bruno scura. I fiori unisessuali, cioè solo maschili o solo femminili, sono portati da piante separate: l’agrifoglio è dunque una specie dioica e solo le piante femminili portano le drupe. E’ una pianta molto apprezzata per la sua eleganza e gli splendidi colori tanto che la raccolta eccessiva a scopo ornamentale sta mettendo in serio pericolo la specie. La fioritura avviene a  maggio-giugno e la fruttificazione in agosto-settembre.

Storia, mito, magia: Il nome latino della pianta, Ilex aquifolium (famiglia Aquifoliaceae), deriva da acrifolium: acer=acuto e folium=foglia, in riferimento alle foglie spinose. Come i rametti di pungitopo (Ruscus aculeatus), anche quelli di agrifoglio venivano posti sulle corde alle quali si appendeva la carne salata, per proteggerla dai topi: di qui il nome comune di “pungitopo maggiore”.

L’Agrifoglio è un albero dalla simbologia maschile, legato all’amore fraterno e alla paternità. Era considerato, insieme all’Edera e al Vischio, un potente simbolo di vita, per le sue foglie annuali e i suoi frutti invernali. Nelle quotidianità celtica si pensava che l’Agrifoglio fosse di aiuto e sostegno in ogni sorte di battaglia spirituale.

Una volta tanto Celti, Latini, Greci ed Etruschi si ritrovano perfettamente d’accordo: l’agrifoglio protegge dal male e garantisce fecondità e continuità della vita. In parte è un presagio ricavato facilmente dalle foglie spinose e coriacee e dai frutti rossi che maturano nel cuore dell’inverno, per cui è sempre stato al centro delle feste invernali appunto, dai Saturnali romani al Natale cristiano. Gli Etruschi però, come sempre, erano più precisi e la consideravano una pianta potente e pericolosa, vera e propria protagonista del bosco di confine della città, la famosa zona sacra che si stendeva tra le mura e l’abitato propriamente detto, ma per nessun motivo coltivata all’interno dei giardini domestici, forse anche perché i suoi frutti son velenosi per l’uomo anche se  costituiscono un vero e proprio cibo invernale per gli uccelli. L’Agrifoglio è simbolo di paternità e amore fraterno ed è sempre stato considerato simbolo di vita. Il suo legno veniva usato per costruire ottime lance facilmente bilanciabili nelle mani di un guerriero e precise nella direzione in cui venivano scagliate. Contornate da cristalli di brina, le pungenti foglie dell’agrifoglio non hanno perduto il loro verde scuro e lucidissimo, e le bacche scarlatte fanno capolino nel diffuso biancore, trasmettendo calore, vitalità e allegria. Queste particolarità hanno fatto di questo splendido albero un simbolo del Solstizio d’Inverno, un inno alla rinascita imminente del Sole caldo e luminoso, un augurio di gioia e buona fortuna per l’anno che deve venire. Le sue bacche soprattutto, anticamente erano viste come piccole eco del grande astro di cui si attendeva trepidanti il ritorno. Per questo, qualche giorno prima del Solstizio si usava regalare dei rametti di agrifoglio alle persone amate: essi rappresentavano l’immortalità, la sopravvivenza oltre la morte apparente, e avrebbero portato una piccola luce nel buio e un po’ di calore nel gelo, insieme alla fortuna che proviene dai regni della natura sottili. I druidi appendevano rami di agrifoglio nelle loro abitazioni per onorare con amore gli spiriti della foresta, e dopo di loro questa usanza continuò ad essere rispettata, con l’intento di allontanare sortilegi e fulmini, di propiziare la fertilità degli animali e della terra, e soprattutto la protezione dalle presenze malevole e dalla sfortuna. Le spine appuntite delle sue foglie, infatti, mostrano senza alcun dubbio la sua funzione di difesa naturale, di combattività verso ciò che è pericoloso o ostile, di reazione attiva agli stati d’essere negativi. I fiorellini bianchi dell’agrifoglio, appesi alla maniglia della porta di casa, si credeva ostacolassero l’entrata di persone o entità dannose, e questa forza magica si pensava fosse ancora più forte e potente se la porta stessa fosse stata costruita con il suo legno duro e resistente. Soprattutto durante le feste del Solstizio e del Natale una simile protezione sarebbe stata auspicabile, dato che in tal periodo i folletti del bosco si sbizzarriscono e sono molto più dispettosi del solito e si sbizzarriscono con i loro scherzi e le loro malefatte. Un’altra proprietà magica dell’agrifoglio era quella di ammansire gli animali selvatici e imbizzarriti, nonché quella di rendere più dolce e sopportabile il gelo dell’inverno, proprio come un piccolo Sole che agiva in modi misteriosi, forse scaldando e rallegrando l’anima più che il corpo.
Come albero simbolo del Solstizio d’Inverno, l’agrifoglio è anche legato alla parte calante dell’anno, quella che dal momento di maggior splendore del Sole porta al momento più buio e freddo. Esso rappresenta il Vecchio dell’anno passato, il Re Agrifoglio dalla lunga barba bianca e dal sorriso radioso che porta i suoi regali a chi ha conservato in sé uno spirito bambino. Egli, che a seconda delle tradizioni assume nomi diversi, non è altri che il dolce e caro Babbo Natale, che proprio per non dimenticare le sue antichissime origini, ancora oggi porta tradizionalmente un rametto di agrifoglio sul berretto. In Irlanda, se si ricevevano rami d’agrifoglio prima del Solstizio, questi venivano spazzati fuori subito dopo il Solstizio stesso, poiché non era di buon auspicio conservare le cose dell’anno vecchio, ed inoltre in tal modo si spazzava via tutto ciò che apparteneva al passato, potendo poi cominciare un nuovo ciclo più leggeri e con lo sguardo rivolto non indietro, ma avanti a se. Come accennato, l’agrifoglio era connesso anche alla Fortuna che poteva pervenire dai regni sottili. Questa sua magica caratteristica compare in una delle antiche leggende irlandesi appartenente al Ciclo di Finn Mc Cumhail, nella quale si racconta che le tre figlie di Conanan possedevano tre fusi costruiti con il suo legno. Su di essi le tre Donne avevano posto matasse di filo fatato ed avevano filato la sorte di Finn e dei suoi guerrieri, provocando il loro imprigionamento e forse, con esso, una delle prove che essi avrebbero dovuto superare.
In questo senso, l’agrifoglio risulta essere vicino alle sacre Filatrici del Destino, nonché loro stesso strumento per determinare la sorte degli uomini posti sotto la loro protezione.
Sempre tra i celti, con il legno dell’agrifoglio si costruivano le lance e gli scudi dei guerrieri. Anche in questo caso appaiono chiaramente le funzioni di attacco alle forze ostili e, al contempo, difesa da esse, esercitate dalla pianta e probabilmente resi ancor più potenti ed efficaci dai suoi influssi sottili.

Anche i neonati potevano essere protetti da questo magico arbusto; per questo venivano spruzzati con l’Acqua di Agrifoglio, preparata come infuso delle foglie oppure come distillato.
Infine, pare che un antico incantesimo usasse l’agrifoglio per attirare i desideri del cuore. Se ne dovevano raccogliere nove foglie da una pianta non troppo spinosa, dopo la mezzanotte di un venerdì, nel più completo silenzio. Le foglie dovevano essere avvolte in un panno bianco, alle cui due estremità si dovevano fare nove nodi. Il sacchettino andava quindi riposto sotto al cuscino e ciò che si sarebbe intensamente desiderato, poggiandovi sopra la testa, si sarebbe presto avverato.

Nel Medioevo era associato al diavolo, per via delle foglie spinose, ma in ogni altro periodo e presso ogni popolo è sempre stato amato da tutti, perché le allegre bacche colorano i boschi in pieno inverno. Già per i Celti l’agrifoglio era una pianta sacra, ma in Italia la tradizione di usare l’agrifoglio a scopo augurale è arrivata grazie ai Romani che, conquistata la Bretagna, scoprirono che i sacerdoti celti usavano la pianta per proteggere le persone dai disagi dell’inverno e per ammansire gli animali; i Romani iniziarono a donarne i rami agli sposi novelli, come augurio e, durante i Saturnali, ne tenevano ramoscelli come talismani, e li piantavano vicino alle case per tener lontani i folletti che, secondo la tradizione, amavano architettare molti scherzi in questo periodo, ne decoravano la casa nel periodo dei Saturnali. L’agrifoglio era la pianta sacra di Saturno e veniva usato durante i Saturnalia per rendere onore al dio. I romani erano soliti fare delle ghirlande di agrifoglio per decorare le statue di Saturno. Secoli dopo, in Dicembre i primi cristiani iniziarono a celebrare la nascita di Gesù. Per evitare persecuzioni continuarono ad ornare le loro case con l’agrifoglio durante i Saturnalia. Una leggenda racconta di un piccolo orfanello che viveva con alcuni pastori quando gli angeli araldi apparvero annunciando la lieta novella della nascita di Cristo. Il bambino si mise in cammino verso Betlemme con gli altri pastori e sulla via intrecciò una corona di rami da portare in dono a Gesù Bambino. Ma quando pose la corona davanti al Bambinello gli sembrò così indegna che si vergognò del suo dono e si mise a piangere. Allora Gesù Bambino toccò la corona e le sue foglie brillarono di un verde intenso e trasformò le lacrime dell’orfanello in splendide bacche rosse. Con l’avvento del Cristianesimo l’Agrifoglio divenne l’Albero Santo a rappresentare la Croce di Spine.

Piccole perle:

In caso di allergie consultare sempre il medico e assumere sempre sotto il controllo del medfico.

infuso per contrastare l’influenza: mettere 1 o 2 cucchiaini di foglie d’agrifoglio fresche, spezzettate, in una tazza d’acqua, lasciando riposare per una notte. La mattina seguente far bollire brevemente il composto, zuccherare, preferibilmente con del miele, e bere durante la giornata, anche due tazze al giorno.

Vino d’agrifoglio contro la febbre: far macerare 25 grammi di foglie fresche, pestate nel mortaio, in mezzo bicchiere di alcool a 60° per una settimana. Aggiungere poi una tazza di vino bianco e lasciar riposare ancora per una settimana, al termine della quale il preparato andrà filtrato. Assumere due cucchiai di vino d’agrifoglio per tre volte al giorno.
Vino d’agrifoglio per calmare la diarrea: in un litro di vino rosso bollente mettere 30 grammi di foglie fresche d’agrifoglio, facendo bollire il tutto per circa 10 minuti. Assumere durante la giornata, in cucchiai da tavola, senza però mai superare i 70 grammi.
Decotto per combattere la bronchite: bollire a fuoco basso 30 grammi di foglie d’agrifoglio essiccate in un litro d’acqua, per 10 minuti. Sciogliere del miele, far raffreddare e bere due tazze al giorno.

 

VISCHIO

14 novembre 2009

vischio

 

( Viscum album)

Fam. Lorantacee

 

 

di Loriana Mari

 

 

 

Caratteristiche: il vischio è una pianta legnosa, alcuni sono sempreverde, perenne e semiparassita che appartiene alla Famiglia delle Lorantacee. Affonda le sue radici nei tronchi di vari alberi e si alimenta della loro linfa; le foglie racchiudono bacche gelatinose, somiglianti a perle, che contengono un solo seme immerso in una polpa vischiosa, grazie alla quale aderiscono alla pianta ospite per il tempo necessario  a sviluppare gli aresteni. I suoi semi per germinare hanno bisogno della luce del sole e allo stadio adulto il vischio riesce a produrre clorofilla anche al buio. In realtà non è nemmeno una pianta, ma un semi-parassita, perché dotato di polloni che penetrano nel tronco dell’ospitante assorbendone la linfa, ma indipendente per lo sfruttamento dell’acqua e della luce, dato che produce da sé la clorofilla. Non è quindi nocivo come l’edera, che può portare alla morte l’albero a cui s’attacca. Cresce più volentieri sugli alberi da frutto, ma è facile vederlo sui pioppi, pini ed abeti. Il famoso vischio della tradizione celtica era esclusivamente di quercia.

Habitat: diffuso in gran parte dell’Europa e dell’Asia, in Italia cresce fino ai 1200 m slm, soprattutto nelle zone boscose di latifoglie.

Proprietà: le caratteristiche medicinali del vischio, conosciute già dai tempi di Ippocrate e Plinio, sono assai interessanti e di recente si sono scoperte anche le sue proprietà antitumorali, sulle quali procedono tuttora le ricerche. Le parti utilizzate sono le foglie che contengono colina e acetilcolina, sostanze che agiscono sul sistema neurovegetativo. Un uso esagerato di esse può causare la morte per arresto cardiocircolatorio. Le bacche sono tossiche e se ne sconsiglia l’uso medicinale. Le sue proprietà sono: ipotensivo e vasodilatatore, antispasmodico e sedativo, diuretico e depurativo. Anche la farmacopea moderna esprime molte riserve sul suo uso: in dose eccessive provoca la perdita della sensibilità, una progressiva paralisi ed addirittura l’arresto cardiaco! D’altra parte pare che sia l’unico regolatore naturale della pressione arteriosa, ottimo antiemorragico, analgesico e naturalmente diuretico. Un tempo si usava con successo contro l’epilessia, l’asma e l’isteria e qualcuno lo ha lanciato anche come anticancerogeno. Attualmente gli erboristi gli preferiscono specie meno pericolose.

Storia, magia e leggenda: il vischio è sempre stato considerato una pianta sacra, una specie di miracolo della natura che d’inverno spicca nei boschi quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il Vecchio descrive i rituali delle popolazioni galliche che accompagnavano la raccolta del vischio: “…nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno i druidi si avvicinavano alla quercia indossando candide vesti e conducendo due tori bianchi. Il capo dei sacerdoti saliva sull’albero e usando un falcetto d’oro tagliava i rami del vischio che venivano raccolti in una pezza di lino bianca, prima che cadessero a terra. Poi immolati i due tori, pregavano per la prosperità di quanti avrebbero ricevuto il dono.”

L’uomo è stato sempre incuriosito dai mazzi verdeggianti quasi sospesi sulle piante, ricchi di bacche perlacee, in un periodo nel quale la natura non produce alcun frutto. Questa pianta che cresce senza toccare terra è ancora oggi bene augurante: come da tradizione la notte di S. Silvestro ci si scambia saluti e auguri sotto il ramo di vischio, che non deve mai toccare terra per non perdere i suoi poteri magici, infatti  è considerato un amuleto contro le disgrazie e gli influssi negativi; e se si passa in compagnia sotto un cespo di vischio ci si deve baciare, ma se una ragazza non riceve questo bacio rituale non si sposerà nell’anno successivo. Viene generalmente appeso sulla porta di casa, là, come diceva Plinio tra cielo e terra. Molte di queste usanze ci giungono dai Celti, che la consideravano una pianta donata dagli dei, favoleggiavano che nascesse là dove era caduta la folgore, simbolo di una discesa della divinità e dunque di immortalità e di rigenerazione. Queste caratteristiche non potevano non ispirare ai cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo, nato in modo misterioso, parte dall’umanità, ma separato da essa per la sua natura divina. Prima di questa elaborazione divina la Chiesa non aveva voluto ammetterlo tra i suoi ornamenti perché legato alla tradizione pagana.

Strana pianta lo definisce Mességué nel suo celebre erbario, verde quando tutti gli altri alberi sono spogli, prende una forma perfettamente sferica, ha un indefinibile colore pastello, foglie ovali simili ad orecchie di coniglio, bacche bianche, che sono il cibo preferito di tordi, merli, cinciallegre e capinere. Una volta raccolto perde i colori originari per divenire sempre più dorato, tanto che tra le varie proprietà magiche che gli sono state attribuite c’è la capacità di brillare nel buio in prossimità di giacimenti d’oro. Il vischio dei Celti era esclusivamente di quercia, l’unico, tra l’altro, che abbia le bacche color dell’oro e veniva raccolto solo in caso d’effettiva necessità, con una piccola falce d’oro usata da mani pure, a digiuno, vestiti di bianco ed a piedi nudi, offrendo in cambio alla foresta una libazione di pane e di vino, perché la leggenda racconta che proprio quando il vischio fu strappato per la prima volta dalla quercia, il buon dio Bälder venne a morte. In realtà il vischio è un parassita e strapparlo non reca alcun nocumento, anzi… ma all’epoca in tutta Europa si pensava diversamente e lo stesso Enea per entrare nell’Ade reca in mano un rametto di vischio. La tradizione scandinava è ricca di racconti e leggende legate al vischio. Già nell’antichità i druidi lo usavano per ottenere infusi e pozioni medicamentose, al fine di combattere malattie ed epidemie che flagellavano e decimavano le popolazioni del tempo; presso i druidi, infatti, il vischio era conosciuto come la pianta in grado di guarire da qualunque malattia. La mitologia norvegese sottolinea il legame col dio Bälder, che morì colpito appunto dal vischio. In memoria del dio, i norvegesi sono soliti bruciarne i rami in prossimità del solstizio d’estate, con lo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità ed il benessere. Probabilmente il significato oggi attribuito alla pianta deriva da queste antichissime credenze popolari, anche se per motivi non del tutto chiari il rito è stato “spostato” all’epoca del solstizio d’inverno. Siamo soliti, infatti, donare o tenere in casa rami di vischio tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno nella speranza di proteggere in tal modo noi stessi, le persone a noi care e la nostra casa dai guai e dalle disgrazie. In effetti i norvegesi bruciavano il vischio d’estate… non è escluso che fosse proprio vischio regalato o raccolto in inverno e gelosamente conservato fino allora! Naturalmente non abbiamo elementi per chiarire il significato del tutto.  Il fatto che la pianta apra per Enea le porte dell’Ade non costituisce propriamente una spiegazione,  ma forse accresce il mistero. Dato che invece continuiamo a baciarci sotto il vischio ad ogni capodanno la sua valenza è essenzialmente quella di portafortuna, attenzione però: qualora si volesse raccogliere a mani nude, soprattutto usando la sinistra, si rischierebbe la mala sorte! Inutile dire che nessuno è più soggetto a questa tentazione, dato che il vischio ormai da anni compare già confezionato e dorato direttamente nelle botteghe dei fioristi. In Francia per le feste natalizie è venduto al naturale, come qualsiasi fiore reciso.

 

 

 

 

 

 

 

Giugno il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

31 ottobre 2009

san giovanni

 

di Loriana Mari

 

Giugno il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni Tra le antiche tradizioni italiane legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in  primo piano la tradizione della Notte di  S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate. Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità  popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività  di San Giovanni Battista. Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali. Sarà  all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni. Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, operlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità. Molte sono le usanze regionali italiane legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne  l’attesa del sorgere del sole era  propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre  e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava, e nella notte magica avvenivano prodigi: le acque trovavano voci e parole cristalline, le fiamme disegnavano nell’aria scura promesse d’amore e di fortuna, il Male si dissolveva sconfitto dalla stessa forza di cui subiva alla fine la condanna la feroce Erodiade, la regina maledetta che ebbe in dono il capo mozzo del Battista. Nella veglia, tra la notte e l’alba, i fiori bagnati di rugiada brillavano come segnali; allo spuntare del sole si sceglievano e raccoglievano in mazzi per essere benedetti in chiesa dal sacerdote. Bagnarsi nella rugiada o lavarsene almeno gli occhi al ritorno della luce era per i fedeli cristiani un gesto di purificazione prima di partecipare ai riti in chiesa. Non bisogna comunque sottovalutare il sapore magico legato a questa festività , in cui la devozione cristiana verso l’apostolo più amato da Gesù si mescola con una tradizione magica ben più antica, secondo la quale in quel giorno era particolarmente facile formulare pronostici per il futuro. Invece la notte che precedeva il 24 giugno era di rito il ritrovo delle streghe sotto i rami di un grande noce, mentre il giorno di S. Giovanni era il più adatto alla raccolta delle noci ancora immature per preparare il nocino. Dal punto di vista della tradizione erboristica molte sono le erbe solstiziali, erbe benefiche e medicine medievali per curare il corpo ed evitare il malocchio, per proteggere la casa e gli animali; sono dunque le erbe di S. Giovanni. Le erbe raccolte in questa notte hanno un potere particolare, sono in grado di scacciare ogni malattia e tutte le loro proprietà  sono esaltate; c’erano erbe per risolvere questioni amorose, ma c’erano anche le piante dellasaggezza. Piante speciali, rarissime in grado di donare a chi le avesse colte proprio nella notte del santo, chiaroveggenza e invisibilità . In quel caso, chi fosse riuscito a reperire la magica pianta nel bosco, dopo averla colta sarebbe stato inondato da una luce meravigliosa, poi si sarebbe sentito chiamare dalla voce di un proprio caro, un meccanismo attivato dal demonio per evitare di cedere il potere magico della pianta. Solo chi fosse riuscito a resistere alla chiamata, e non si fosse girato, avrebbe acquisito l’incredibile potere. Le più ricercate erano però le piante della buona salute, erbe in grado di donare forza e benessere a chi le avesse assunte. Con alcune di queste veniva fatta un’acqua, che una volta benedetta da un prete, sarebbe stata di buon augurio. Le erbe più note da raccogliere nella notte di S. Giovanni sono: l’iperico, l’artemisia, la verbena, il ribes rosso, il vischio, il sambuco, la mentuccia, l’aglio, la cipolla, la lavanda, il biancospino, la ruta, il corbezzolo e il rosmarino.