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Fisco e ministri, siamo tutti guardoni?

2 marzo 2012

Ora che i redditi dei ministri sono stati pubblicati cerchiamo di capire la differenza che passa fra la trasparenza e il guardonismo fiscale. Posto che quello praticato in Italia è un esercizio che rientra nella seconda categoria: si compongono le liste, si stilano le classifiche, si sbircia per sapere quanto è ricco questo o quello. Funziona così per i ministri, come per i parlamentari. Ma, appunto, non funziona. Non serve a niente. Mero esercizio d’inutile curiosità. Espletato il compito ci si sente più leggeri, si proclama l’avvento dell’onesta visibilità, s’inneggia ai nuovi costumi. Invece non è cambiato un bel niente. Prendete le dichiarazioni diramate ieri: ce ne fossero due compitate con il medesimo criterio! Ciascuno mette quello che gli pare: alcuni i redditi dell’anno scorso, altri quelli di quello in corso, altri del prossimo. Che ci si fa, con roba simile? E la responsabilità dell’inconcludenza non è di questi ministri, cui, semmai, va riconosciuta la buona volontà. Ma la trasparenza di un Paese non può dipendere dalla buona volontà. C’è un vizio culturale di fondo: si raccontano le storie personali come se il pubblico fosse una giuria penale, si raccolgo i redditi e i patrimoni come se chi li legge dovesse vestire i panni del giudice tributario. Si aggiunge che la ricchezza non è una colpa, laddove dovrebbe essere un merito. Il tutto senza alcuna attenzione a come si dovrebbero aggregare, pubblicare e utilizzare quei dati, quindi senza alcun rispetto per la trasparenza che aiuta la democrazia. Perché è interessante sapere come e di cosa vive chi governa e chi legifera? Perché è rilevante conoscere i suoi interessi e quelli con i quali è giunto in contatto. E’ rilevante sapere se (è un’ipotesi) il nuovo ministro della difesa ha lavorato con chi fabbrica armi, e non perché sia positivo o negativo in sé, ma perché è giusto conoscere il retroterra delle scelte che saranno fatte. Non serve a nulla sapere quanto Tizio ha guadagnato l’anno scorso, ma è interessante sapere come si sono evoluti i suoi redditi negli ultimi dieci anni (perché se l’ultimo la sua ricchezza s’è moltiplicata, o improvvisamente annientata, se ne può ragionare circa gli interessi o i trucchi con i quali si è avvicinato all’incarico pubblico). Anche qui, non perché ci sia qualche cosa di male, ma perché è bene sapere. La funzione di quei dati non è inquisitoria, ma al servizio della pubblica consapevolezza. Il giudizio che compete al cittadino è quello elettorale. Se le persone di cui si pubblicano i redditi non si sono mai candidate o non intendono farlo, a che scopo gira l’informazione? E’ evidente che se c’è qualche cosa di sospetto l’accertamento non deve essere fatto al bar, né la democrazia ci guadagna continuando ad alimentare le letterature castali e il diffondersi dei refoli calunniosi. Faccio osservare che gli scandali, o presunti tali, non originano mai da quei dati, ma nascono prima o, comunque, indipendentemente. Ed è bene così (meglio sarebbe non averne, ma è impossibile), perché ciò che si fornisce al pubblico non sono indizi di reato, ma strumenti di conoscenza. Il reddito di un anno e il patrimonio fotografato ad un determinato istante, non è uno strumento di conoscenza. Alimenta il guardonismo, il gusto morboso di spiare la fortuna altrui (talora coltivando l’invidia, quindi la rabbia, talaltra la devota ammirazione, due sentimenti egualmente animali). Se poi, per giunta, i dati sono disomogenei e affidati alla fantasia di ciascuno (mi spiegate come si fa ad accertare la veridicità di un reddito futuro?), allora siamo al gargarismo. Vediamo il lato positivo: si è affermato un costume. Sia reso merito al governo Monti. Adesso, però, si cerchi di dargli un minimo di razionalità e funzionalità. Ho una proposta: chi accetta incarichi pubblici accetta anche la pubblicazione delle proprie dichiarazioni nel quinquennio o decennio precedente, depurate dei dati strettamente personali (esempio: figli a carico). Chi ha da temere, se ne stia a casa.

Davide Giacalone

 

Fisco: i soldi recuperati siano restituiti, pari pari, ai contribuenti.

9 febbraio 2012

La pressione fiscale è troppo alta. Se volessimo reagire alla recessione in corso dovrebbe scendere. Siccome non è aria e, anzi, spira un vento fetido, che sollecita vendetta fiscale, faccio una proposta: per evitare che cresca, per lasciarla almeno ferma al suo attuale peso insopportabile, ogni tallero raccolto dall’evasione sia restituito ai cittadini che pagano le tasse. Attenti: non assegnato alla spesa pubblica, non destinato ai derelitti e agli afflitti, che tali sono tutte le persone oneste, ma riconsegnato direttamente a chi ha sempre pagato, di modo che il maggior gettito non si traduca in più tasse per tutti. Si otterrebbero due risultati:

a) si eviterebbe che la lotta all’evasione sia dominata dalla voglia di far cassa, il che distrugge il diritto e l’economia;

b) ricevendo ciascuno di essi quota parte del raccolto avrà concreta contezza di quante minchionerie si proclamano in materia.

Vedo che Barak Obama si propone di portare al 30% le tasse per chi guadagna più di un milione di dollari, assicurando che nessun aumento è previsto per i redditi fino a 250mila. Lo attaccano perché troppo esoso. Io ci metterei la firma, traverserei l’Atlantico a nuoto: dalle nostre parti i suoi aumenti significherebbero un dimezzamento delle tasse. Il che si traduce in uno svantaggio per tutti gli italiani, sia cittadini che imprese. Infatti, anche durante la crisi, loro crescono e noi recediamo. Mettiamocelo in testa: più tasse non è uguale a più giustizia sociale, ma a più recessione. Qui, invece, va di moda il moralismo, per sostenere il quale si sobilla la rabbia e si sollecita la vendetta. Salvo accorgersi, però, che ci si vendica contro sé stessi. I rapporti della Guardia di Finanza divengono occasioni per sbraitare contro i “supertruffatori”, quelli che “rubano” alla collettività. Poi leggi con più attenzione e ci trovi l’ovvio: fra gli evasori ci sono tanti lavoratori dipendenti, che pagano alla fonte, ma non dichiarano altri introiti. La caccia, quindi, è aperta sia sul pianerottolo che in ufficio. Naturalmente si devono trovare le complicità e le coperture politiche. Dice Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate: l’evasione, per anni, non è stata combattuta. Si trova in quel posto dal 2008, prima, dal 2006, era alla guida di Equitalia, dopo essere stato ispettore tributario, al Secit, già dal 1995, facendo rapida carriera. Quali anni? Ma ha ragione, l’evasione la si è tollerata. Magari, ecco, non è a noi che deve dirlo. Posto ciò, non mi piace l’ipocrisia: le tasse vanno pagate, ma se si pagano al livello cui sono arrivate escono dal mercato vagonate d’aziende e finiscono in miseria eserciti di famiglie. A quel punto che si fa? Vedo che il governo è corso a dire che si farà lo sconto sui pedaggi, per i Tir. Ai pescatori s’assicura attenzione. In questo modo ci sarà la fila di quelli che vanno fuori dal Parlamento a sfasciare tutto, come di quelli che bloccheranno strade e ferrovie per farsi valere. Occhio, perché indurre l’impressione che l’arma fiscale ripiani i torti e l’arma della protesta irregolare conquista privilegi è come chiamare tutti alla violenza. I mezzi di comunicazione alimentano la rabbia cieca, pubblicando acriticamente la radiografia degli evasori. Sono gli stessi mezzi che divennero mattinali di procura.

Un po’ perché ignoranti, un po’ perché fascistelli, un po’ per prudenza autoprottetiva (e della proprietà) fanno sempre confusione fra l’accusa e la giustizia.  Solo che non sono evasori, sono vittime del giustizialismo fiscale. Apprendo che a Luca Laurenti sono stati sequestrati degli appartamenti, per evasione fiscale. Ben gli stà, disgraziato supertruffatore, ladro ai danni altrui. Poi leggi sotto e scopri che aveva fatto ricorso nel 2007. Si attende ancora il secondo grado, quindi il ricorso è pendente, ma la sua foto finisce a corredo dell’infamia. Infame, invece, è uno Stato che persegue e punisce chi osa rivolgersi al giudice. Agisce così la mafia, non uno stato di diritto. Da ultimo è giunto il Vaticano, che dopo anni di reclamata esenzione fiscale proclama essere peccato il non dichiarare tutto al fisco. A me dispiace per Enrico De Pedis, devoto assassino della Magliana, seppellito nella basilica di Sant’Apollinare per le montagne di denaro sporco che diede ai tonacati. Ma se lo merita: da quando gli hanno sparato non versa più. La via dello sviluppo passa dall’abbattimento del debito pubblico mediante dismissioni (abbiamo qui fatto precise proposte) e dalla diminuzione delle tasse. Le altre strade portano all’impoverimento collettivo. Siccome la via maestra non la si vuole imboccare, e siccome il ragionamento che svolgo non voglio sia un alibi per gli evasori fiscali, ribadisco quanto detto: i soldi recuperati in quel modo siano restituiti, pari pari, ai contribuenti.

Davide Giacalone

 

 

MONTI: MISSIONE NON COMPIUTA

21 gennaio 2012

Il compito del governo tecnico era quello di stabilizzare la posizione italiana nel mercato dei capitali, porre fine alla strumentalizzazione che si era fatta delle nostre liti e faziosità nazionali, restaurare la normalità nei rapporti interni all’Unione europea e, con ciò, ridurre la forbice del differenziale dei tassi d’interesse. Non a caso s’era molto posto l’accento, nel periodo preparatorio del commissariamento governativo, sugli spread, assai forzandone il significato e quasi leggendoci l’indice della poca credibilità internazionale del governo Berlusconi.

Ebbene, tale missione è fallita.

Noi abbiamo sempre letto gli spread come un indicatore della crisi dell’euro, e non della sostenibilità del nostro debito (anche se, ovviamente, su quella influivano), ma per i feticisti del ramo faccio osservare che la media dello spread, nei sessanta giorni del governo Monti, è superiore a quella degli ultimi sessanta giorni (i peggiori) del governo Berlusconi.

E questa è solo la premessa di quel che sta per avvenire.

Il governo Monti ha commesso due errori, gravi. Il primo è stato negare la crisi dell’euro, negare che l’origine dei problemi (quelli attuali, non quelli storici) sta nella debolezza politica e istituzionale della moneta unica, in questo modo avvalorando l’idea che siano la dissipazione e l’indisciplina interne a portare la colpa di quel che accade. Il secondo è stato far credere che il problema consistesse nel trovarsi un posto fra Francia e Germania, sventolando come un trofeo la riammissione al desco, laddove, al contrario, il problema era rompere quell’asse, far comprendere ai francesi che legandosi ai tedeschi si sarebbero inabissati, e far comprendere ai tedeschi che fuori da una logica europea la loro forza diventa un peso, che li sprofonda fra i fantasmi della storia. A questi due errori il governo Monti ne ha sommati altri, meno decisivi ma comunque nocivi. Ha cominciato a comportarsi come un governo normale, nato dalla volontà degli elettori e non commissariale (quale è e non smetterà di essere), quindi allargando le proprie competenze fino a trattare materie poco o per nulla attinenti con la propria missione. In questo modo è entrato nel gioco politico, il che è legittimo, ma solo a condizione che accetti di passare per il giudizio elettorale. Ha preteso che i propri ministri potessero agire per comprovata competenza, laddove alcuni di loro sono inciampati in incredibile inadeguatezza (come dimenticare lo strafalcione dell’intervento per decreto in un interna corporis parlamentare!), o hanno mostrato una stoffa umana più adusa allo struscio ombroso che al mostrarsi esemplari.

Al sorgere del governo Monti taluni videro alle sue spalle i mitici “poteri forti”.

Noi ci vedemmo la debolezza della classe dirigente e l’insipienza della politica, che veniva commissariata. Anche le umane inadeguatezze confermano quella nostra impressione. Ora la partita cambia. Con alle spalle l’insuccesso, con di fronte l’assenza di strumenti per operare sul campo europeo (Monti pagherà caro l’avere sostenuto l’irresponsabilità dell’euro, e la sua personale debolezza è divenuta quella italiana), il governo in carica rischia d’essere quello che si rivolgerà al Fondo monetario internazionale. Un prestito da quella fonte (oltre a portare una certa sfortuna, perché l’indice degli insuccessi, per il fondo, è infinito) menoma la sovranità politica di un Paese, sottoponendolo non alla vigilanza degli alleati e propri pari, ma a quella di chi presta denaro. Se questo dovesse accadere si porrà la necessità di una decisione, le cui conseguenze si riverbereranno negli anni: accettiamo quei soldi per fare quello che i tedeschi ci chiedono, o li accettiamo per svincolarci da una guida che non abbiamo scelto, non vogliamo è ci porta ad affondare? Da come ho posto la domanda è evidente la mia risposta: la prima cosa sarebbe follia.

Il punto è: chi la prende, quella decisione?

Non di certo un governo commissariale. Su questo è bene essere chiari: a impegnare il futuro di una democrazia non può che essere chi ne è democratica espressione. Il che porta, visto che la precedente maggioranza politica è fallita, per sua stessa ammissione, alle elezioni. Conosco l’obiezione: in questo momento sarebbe pericoloso. Lo è.

Ma quanto è pericoloso pensare di sospendere la democrazia e ipotecare il futuro?

In Spagna, inoltre, s’è dimostrato che un governo con maggiore stabilità politica davanti fornisce maggiore affidamento, pur restando gravi i problemi. Credere che le colpe siano di Monti è sciocco. Credere che sia la soluzione, anche.

Davide Giacalone

 

 

Sovranità europeista e tritacarne degli spread

17 dicembre 2011

C’è vita (politica) sotto le macerie degli spread. In giro per l’Europa ci sono segnali confortanti, non allineati con i canoni più elementari, che tanto successo hanno in casa nostra. François Hollande, che la primavera prossima contenderà l’Eliseo a Nicolas Sarkozy, ha detto che i tedeschi se la possono scordare l’ipotesi di far controllare la disciplina di bilancio alla Corte di giustizia europea, perché una cosa è essere tenuti all’armonizzazione delle politiche fiscali, altra l’essere denunciati, e doverne rispondere a un giudice, per scelte politiche prese con metodo democratico. Detto in modo più generale: va bene cedere sovranità nazionale verso istituzioni europee che abbiano l’eguale base di legittimità, vale a dire siano frutto della volontà popolare, non va affatto bene, invece, rinunciarci a favore di quale che sia magistratura o burocrazia. Il socialista Hollande ha ragione, ed è il tema politico dell’Europa futura. Da noi sembra che esistano solo due opzioni: o tutti uniti nell’ottemperare ai dettami europei, delegandone l’attuazione ai tecnici, quindi ammettendo il commissariamento della politica e, con questa, della democrazia; oppure scatenarsi in un moto reazionario e antieuropeo, che abbia nella moneta unica il suo bersaglio ideale. Alternativa d’impareggiabile povertà culturale, oltre che politica. Dilemma che, oltre tutto, si risolve a tutto favore della prima opzione, che ha il difetto di caricare come una molla la rabbia sociale, senza disporre di alcuno strumento per governarne l’eventuale scatto. Oramai tutti hanno imparato che la Bce deve diventare “prestatore di ultima istanza”, talché lo sento ripetere a pappagallo da chiunque voglia darsi l’aria d’aver capito cosa significa.  Ma dietro la formuletta di rito c’è un problema politico: come all’interno di uno Stato la spesa pubblica (ed il debito che ne consegue) ridistribuisce reddito, così avverrebbe all’interno dell’Unione. La redistribuzione, possibilmente coniugata con la produzione, altrimenti genera burocrazia e miseria, è scelta politica, presuppone il chi, il cosa e il dove si guadagna e il chi, il cosa e il dove ci si rimette. Chi, in Europa, può praticare queste scelte? La risposta, oggi, è: nessuno.

Se si vuole uscire dalla trappola logica, che ha dato vita al tritacarne degli spread, si deve andare verso una maggiore integrazione, quindi verso maggiore cessione di sovranità, ma anche verso maggiore democrazia, quindi maggiore politica europea. In Germania non c’è solo l’incapacità e la pochezza di Angela Merkel, ci sono anche voci autorevoli, come quelle dei due Helmut, Schmidt e Kohl, che ne condannano le scelte. In Francia non c’è solo l’imperizia di Sarkozy (a proposito, visto che, secondo lui, detto in pubblico, la Merkel “nous fout le bordel”, perché non se ne chiede la destituzione e non lo si radia dai consessi civili, come si fece con chi, in privato, si è espresso poco opportunamente sulle terga della citata?), c’è anche l’europeismo di Jacques Delors e il pragmatismo di Jean-Claude Trichet. In Inghilterra il sindacato ha scioperato contro la riforma delle pensioni, ma i laburisti (che sono opposizione, di sinistra) non li hanno seguiti, ben consapevoli, come il governo, che lo stato sociale del passato non ce lo si può più permettere. Insomma, c’è vita (politica), ci sono idee e, grazie al cielo, ci sono interessi che si contrastano. L’Italia è la settima potenza economica mondiale. Abbiamo colpe verso noi stessi (alto debito pubblico e bassa crescita) e abbiamo sempre, demenzialmente, guardato all’Unione come a un vincolo, anziché come a un’opportunità. Ma la nostra forza ci consegna anche responsabilità e limitarci ad obbedire agli ordini senza interloquire, con autorevolezza e determinazione, nelle scelte ci rende complici di chi sbaglia. Trovo impressionante che la Camera dei Deputati abbia trionfalmente approvato (464 voti a favore e 11 astenuti) la modifica costituzionale che scolpisce nel marmo il pareggio di bilancio, impegnandosi ad un via libera definitivo entro il febbraio 2012, dimenticando che:

a) tale vincolo c’era già (articolo 81);

b) già nella legislatura 1992-’94 si corse al suicidio politico, facendosi imporre l’agenda da fuori.

La settima potenza economica non si fa dettare i compiti e corre a farli. Almeno chiede un consiglio di classe e, dentro quello, cerca le sponde per fare politica, per far valere i propri interessi, per non umiliare quelli europei. Così, come se fossimo ancora padroni della nostra storia

Davide Giacalone

 

ECONOMIA: L’INDIGERIBILE SARKEL

28 ottobre 2011

Alla fine resteremo solo noi a credere d’essere il problema dell’euro, come se gli umori leghisti e i cinque anni che ci dividono dall’entrata a regime del sistema pensionistico su base contributiva siano una specie di grattacapo continentale.  Invece il problema dell’Europa è l’euro, concepito come moneta senza governo e attrezzato per affrontare l’inflazione, laddove se la deve vedere con la stagnazione e la recessione. E dentro l’euro il problema sono i tedeschi, che concepiscono l’Europa come una specie di germanizzazione collettiva.  E dentro la Germania il problema è il governo di Angela Merkel, punito in tutte le elezioni, retto da una coalizione che non regge, sotto scacco della propria corte costituzionale e sconfessato da chi, come Helmut Kohl, vide nell’Europa l’alveo che avrebbe consentito di unificare la Germania, e nell’euro la valuta che avrebbe favorito la crescita del mercato interno e le esportazioni.  Noi siamo un problema, certamente, ma per noi stessi.  Siamo fermi, imbambolati, preda delle pressioni corporative e dell’illusione che si possa conservare il passato.  Con un sistema istituzionale in cui contano solo quelli che bloccano, a scapito di quanti intendono cambiare quale che sia cosa.  Con un bipolarismo che premia la rendita degli estremismi (da entrambe le parti) e mortifica la grande maggioranza dell’elettorato, che votando a destra o a sinistra resta moderato.  Con un governo in crisi da un anno e oramai fermo da due.  Senza un’opposizione in grado di sostituirlo perché sulle cose che contano (dalle pensioni alle privatizzazioni) laddove la maggioranza è inerte l’opposizione è reazionaria.
Con le parti sociali, sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, che firmano accordi per fermare il poco che si fa.  Certo che siamo un problema e certo che pagheremo un’ibernazione che dura da diciassette anni.  Ma dire che siamo noi il problema dell’euro è una colossale sciocchezza, anche perché i problemi veri sono vecchi e le cose nuove (pochine) sono positive, a cominciare da una disciplina fiscale grazie alla quale abbiamo il bilancio primario in attivo e un debito pubblico che, rispetto al pil, dal 2008 a oggi è cresciuto meno di quello altrui.  Allora, come è possibile che siano queste cose nuove ad avere scatenato la speculazione?  Infatti non è possibile, perché non è vero.  E’ successo, invece, che la debolezza istituzionale europea è stata surrogata dall’asse franco-tedesco, autonominatosi guida dell’Unione.  Tale asse è stato gravemente incapace prima di capire e poi di fronteggiare quel che succedeva in Grecia, supponendo di potere salvare le proprie banche chiedendo ai greci di rinunciare al presente e al futuro.  L’asse ha enunciato un dogma mortifero: la Grecia non sarà mai lasciata alla bancarotta, sarà protetta da tale prospettiva, ma questo senza modificare nulla della struttura dell’euro e della Banca centrale europea.
Da quel momento è cominciata la corrida, con gli speculatori che (giustamente, dal loro punto di vista) si arricchiscono a nostre spese.  E più la Germania della Merkel ha puntato a far credere che la Bce sia una specie di Bundesbank, ispirandosi alla dottrina della moneta forte e del rigore interno, più la speculazione s’è leccata i baffi, addentandoci ai polpacci e puntando al collo.
Così andando stramazza l’euro. C’è la controprova: sia i giapponesi che gli statunitensi hanno un indebitamento lordo che, in rapporto al prodotto interno, è superiore a quello europeo, essendo l’Europa l’area più ricca, eppure pagano interessi inferiori ai nostri.
Come ci sono riusciti? Governando la loro moneta e non credendo nella scempiaggine che si possa farla volare con il pilota automatico. Quando i mercati hanno a che fare con una valuta governata sanno bene che chiedendo tassi d’interesse progressivamente sempre più alti si va incontro ad una svalutazione, che a sua volta può generare inflazione, quindi, oltre un certo limite, essere esosi non è conveniente.  Un po’ come gli strozzini, se mi è concesso il paragone: fino ad un certo punto puntano a farsi restituire i soldi, con le buone o con le cattive, dopo un certo livello possono prenderti la macchina e l’amante, perché i debiti, oramai, sono una montagna non scalabile.
La Merkel ha commesso l’imperdonabile errore di volere guidare l’Europa avendo in mente i più chiusi e limitati interessi immediati del sistema produttivo tedesco, mentre nella difesa delle proprie banche, inguaiate con titoli sempre meno esigibili (e ciò significa che hanno prima lucrato a spese di greci, spagnoli e italiani), ha trovato un partner in Nicolas Sarkozy, il quale a sua volta non vince più elezioni intermedie e l’anno prossimo si gioca il posto all’Eliseo, che per lui conta più di ogni altra cosa. La premiata pasticceria Sarkel passa il tempo, in cucina, a darsi mazzate, perché gli interessi francesi e tedeschi non coincidono manco per niente, ma poi mette in vetrina torte indigeribili, deglutendo le quali prima sparisce l’euro e a ruota l’Unione europea.
Lo spiritosone con la ridarella ha un deficit di bilancio innanzi al quale noi siamo maestri di rettitudine e buona amministrazione, con in più una banca, Dexia, già nazionalizzata e le altre in arrivo. Queste operazioni comportano il sommarsi dei debiti bancari al debito pubblico, con il che i francesi ci raggiungeranno presto (se non si pone rimedio), posto che il loro debito lordo (pubblico + privato) è già superiore al nostro.
Ridi ridi, diceva la mia nonna.  Una cosa triste ve la dico io: la nostra classe dirigente è demoralizzante, ma quella che oggi guida l’Europa è imbarazzante.

Davide Giacalone