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Pungitopo o Ruscus aculeatus

6 Maggio 2010


di Loriana Mari

Caratteristiche:
Il suo nome scientifico è Ruscus aculeatus e appartiene alla famiglia delle Liliacee. Si caratterizza per le sue foglie dure e con le spine, simbolo di forza e prevenzione contro tutti i mali. Ha delle strutture, che pur simili a foglie, sono fusti appiattiti (cladodi) che hanno sviluppato funzioni simili a quelli delle foglie, essendo anch’essi fotosintetici. I fiori maschili e femminili si trovano su rami diversi portati al centro dei cladodi. Il frutto è una bacca globosa, rosso brillante, contenente uno o due semi. I giovani germogli possono essere mangiati, avendo sapore simile a quello dell’asparago.

Habitat: Diffuso in tutta Italia, è un cespuglio molto ramificato con fusti finemente solcati, può formare il sottobosco di foreste mediterranee.

Proprietà: Le radici del pungitopo vengono raccolte tra settembre e novembre, il rizoma viene pulito ed essiccato al sole. La radice e il rizoma del pungitopo contengono saponine steroidi, dall’azione vasocostrittrice e antinfiammatoria, e rutina, che ha azione protettiva dei capillari. Il rizoma è proteico e diuretico. Il pungitopo è commestibile e si può mangiare come frittata

Storia, leggenda, mito e magiail pungitopo, al pari dell’agrifoglio, è considerato portatore di fortuna. Le bacche rosse sono il simbolo del Natale, il simbolo della luce e del buon auspicio, una promessa di abbondanza e fecondità per il nuovo anno che comincia. Secondo la leggenda, le foglie spinose rievocano le spine della corona di Cristo e le bacche il rosso del suo sangue. Il nome “pungitopo” deriva dall’usanza contadina di proteggere dai topi con mazzetti di questa pianta, i salumi e i formaggi messi a stagionare.

CELIDONIA (chelidonium majus)

25 febbraio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche:     pianta erbacea perenne con rizoma ramificato lungo circa 10 cm con fusto bruno rossiccio, l’interno è giallo, il fusto è eretto, ramificato con nodi ingrossati e provvisto di peli. La pianta contiene un lattice ad azione caustica. Le foglie sono alterne con 2-5 paia di foglioline di color verde cinereo, mentre la superficie inferiore è più chiara. I fiori opposti alle foglie sono riuniti in ombrelli e sono di un bel giallo oro. Il frutto è una capsula allungata di circa 5 cm che contiene semi ovoidali neri lucenti, punteggiati di chiaro e con un ingrossamento carnoso bianco, la pianta è velenosa.

Habitat: cresce comunemente nei ruderi, lungo le strade, nei terreni incolti e ombrosi.

Proprietà: il lattice che sgorga dalla pianta fresca spezzata è caustico sulla pelle e viene comunemente impiegato per la cura di porri e vesciche, è chiamata anche erba dei porri.

Storia, mito, leggenda e magia: anticamente si credeva che, i rondinini tardassero ad aprire gli occhi e che la loro madre raccogliesse un erba speciale che mangiata a poco a poco, aiutasse i rondinini a vedere. La celidonia, in greco chelidon, che significa rondine. Così scriveva Plinio il Vecchio: “con questa erba le rondini curano gli occhi dei loro piccoli e restituiscono loro la vista anche se gli occhi gli sono stati cavati”. Si era diffusa una credenza popolare secondo la quale la rondine, prima di allontanarsi dal nido accecava i piccoli che volessero uscirne e al ritorno rendeva loro la vista grazie a questa erba miracolosa. Per gli alchimisti del Medio Evo era un ingrediente indispensabile per la fabbricazione della pietra filosofale, la chiamavano il dono del cielo (coeli donum), perchè ritenuta dotata di poteri soprannaturali fa parte delle erbe magiche di S. Giovanni con  la quale si preparavano talismani, oli e il sale per essere usati nei riti magici nelle notti di luna piena. Messa sotto lo zerbino allontana per sempre i falsi amici e gli invidiosi. Si crede anche che una goccia del suo latte lasciata cadere in un dente cariato calmi il dolore, in Friuli è chiamata erba di S. Apollonia la santa che protegge dal mal di denti. In passato si riteneva potesse curare gli occhi. Aiutasse la bile e le occlusioni di fegato e milza, curasse il cancro, le fistole e le piaghe ulcerose. Alcuni poeti hanno cantato e celebrato la bellezza e la delicatezza di questa pianta, Ezra Pound scrive: “… volò da questo monte il seme – e ogni pianta è piena di seme sinchè – la donnola mastica la ruta – e la rondine la celidonia…”

William Wordswort scrive: “… c’è un fiore, la minuscola celidonia che si ripiega su se stessa – come molti altri per il freddo e per la pioggia – e al primo raggio di sole – brilla come lo stesso sole, si riapre, torna fuori – di nuovo si rianima.

CICLAMINO, (ciclamen porpurescens o europaem)

6 febbraio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche: originario della Grecia, del Medio Oriente e dell’Africa, il ciclamino deve il suo nome dal greco kyklos, che significa cerchio, per il particolare movimento dello stelo.

Habitat: Cresce nei terreni ricchi di humus dei boschi, nei luoghi freschi, vicino ai torrenti e tra le rocce. Li puoi trovare nei boschi di lecci delle nostre regioni meridionali Il ciclamino è una pianta che cresce allo stato spontaneo in tutti i Paesi che si affacciano sul  bacino del Mediterraneo, ed anche in Paesi molto lontani come la Somalia e l’Iran.

Il tubero di questa pianta è tossico.

Fiorisce alla fine di gennaio e febbraio.

Storia, leggenda e magia: secondo un’antica leggenda (così narra Plinio il Vecchio), i luoghi in cui viene piantato il ciclamino sarebbero immuni da malefici e filtri nefasti. Così si attribuì a questo fiore la proprietà di guarire dal morso dei serpenti. Secondo alcuni era sacro ad Ecate, divinità dell’oltretomba, che presiedeva ad incantesimi e magie. Il ciclamino vivo influenza i centri di energia vitale; tenendo questa pianta  nella propria casa si avranno grandi benefici per l’ispirazione e la sicurezza di sé.

In epoca cristiana la pianta divenne attributo di Maria, dove le macchioline rosse che spesso sono all’interno del fiore simboleggiano il suo dolore per la morte del Figlio sulla croce.

ll profumatissimo ciclamino, analogamente alla Mandragora, è detta “Pianta di Ecate” o “Pianta del diavolo”, sottolineando come Ecate sia spesso vista, erroneamente, collegata ad un’entità negativa come Satana che è stata inventata dal cristianesimo e, quindi, molto successiva alla nascita di  Ecate.  E’ una pianta nota fin dall’antichità. La sua bellezza e le sue forme avevano già colpito la fantasia degli antichi, i quali elaborarono su di esso molte leggende, che si sono tramandate fino ai nostri giorni.

Gli antichi greci attribuivano al ciclamino una valenza magica per la forma tondeggiante del tubero e per la tendenza del gambo del fiore ad attorcigliarsi a spirale quando il fiore è fecondato. Gli antichi greci “leggevano” in queste forme “circolari” una affinità con il cerchio, inteso come figura magica perchè rappresenta l’universo, nel suo eterno ciclo di rinnovamento. Dunque, una pianta con quella forma diventava una pianta dalle virtù magiche. Il nome stesso del ciclamino si ispira a questo aspetto “magico”,  deriva dalla parola greca kyklos, cerchio.

La leggenda più famosa sul ciclamino ci è stata tramandata da alcuni scritti di un famoso naturalista greco, Teofrasto, vissuto nel III secolo a.C. Secondo Teofrasto, il ciclamino propiziava l’amore e la sensualità. Probabilmente Teofrasto aveva ricondotto la forma rotondeggiante e compressa ai poli del tubero all’utero femminile, associando così la pianta al concepimento. Questa credenza risultava inoltre rafforzata da una antica usanza, quella di adornare la camera dei giovani sposi con piccoli mazzi di questo fiore, in chiaro  augurio di fertilità.

Il ciclamino aveva colpito l’attenzione dei suoi antichi osservatori anche per un altro motivo: è una pianta velenosa. Nel tubero del ciclamino è presente un glicoside chiamato ciclamina, velenoso per l’uomo, ma non per alcuni animali. Anzi, il tubero di ciclamino è noto anche con il nome di pamporcino perchè è particolarmente appetito dai maiali. La presenza del veleno ha contribuito ad alimentare la leggenda del ciclamino come pianta dalle virtù magiche. Infatti, nell’antica Grecia il ciclamino era sacro ad Ecate, divinità lunare delle magie e degli incantesimi. Si era soliti piantare questi fiori intorno alle abitazioni  perchè si credeva che proteggessero dai malefici, e si usava l’estratto di ciclamino come rimedio contro il morso dei serpenti velenosi.

Questa doppia valenza del ciclamino, pianta di indiscutibile bellezza ma velenosa, pianta di vita e di morte, ha fatto sì che il ciclamino, nel linguaggio dei fiori, simboleggiasse la diffidenza.

Una volta i contadini mettevano a cuocere sulla brace   il tubero   del ciclamino   incavato    e riempito d’olio, che poi usavano per calmare il mal d’orecchie. Il tubero torrefatto   perde la sua tossicitá, fornisce  fecola usata come sostanza alimentare per animali. Questa un tempo era utilizzata perfino dall’uomo, per questo la pianta era  anche  detta  pan terreno.

CARDO BENEDETTO (Cnicus Benedictus) Fam. Compositee

23 gennaio 2010

cardo santo

di Loriana Mari

Caratteristiche: pianta dal fusto eretto, ramificato, ricoperta di peluria, ha foglie spinose, frastagliate o pennate terminanti con aculei. I fiori sono di coloregiallo protetti da un involucro spinoso. La fioritura avviene dalla primavera all’estate. La pianta può raggiungere i 40 centimetri d’altezza.

Plinio nella sua “Storia Naturale”, lo annovera fra gli ortaggi pregiati.
Fin dai tempi antichissimi, germogli e semi di cardo servivano per produrre il caglio dei formaggi, ma solo nel ‘500 si hanno le prime testimonianze della sua presenza in cucina, e delle sue tecniche d’imbiancamento.
Due medici della corte sabauda, alla fine del XVI sec. scrivevano:
“i cardi si mangiano ordinariamente nell’autunno e nell’inverno fatti teneri bianchi sottoterra.
Nel ‘700 il rinomato libro di cucina “Il Cuoco Piemontese” cita la ricetta più classica a base di cardi: la bagnacauda , piatto simbolo della gastronomia del Piemonte.

Insieme al tartan, il cardo è forse il simbolo che identifica maggiormente gli scozzesi, e oggi lo si vede usato per contraddistinguere come scozzesi una serie di prodotti, servizi e organizzazioni. Una leggenda racconta che un manipolo di guerrieri scozzesi stavano per essere sorpresi nel sonno da un gruppo di vichinghi invasori, e si salvarono solo perché uno degli attaccanti mise un piede nudo sopra un cardo selvatico. Le sue grida diedero l’allarme e gli scozzesi, risvegliati, sconfissero come di dovere i danesi. In segno di ringraziamento la pianta fu chiamata Guardian Thistle (cardo protettore) e venne adottata come simbolo della Scozia. Non esiste alcuna testimonianza storica che sostenga questa leggenda, ma qualunque siano le sue origini, il cardo è stato un simbolo scozzese importante per più di 500 anni. Appare in modo riconoscibile forse per la prima volta su delle monete d’argento emesse nel 1470 durante il regno di Giacomo III e, a partire dagli inizi del XVI secolo fu incorporato nello stemma reale della Scozia..

Habitat: originario delle regioni mediterranee il Cardo Santo è spontaneo nell’Italia Centro Meridionale, dalla pianura fino all’alta collina.

Proprietà: in erboristeria è rinomato per le sue proprietà aperitive,  diuretiche e toniche. il cardo santo, o cardo benedetto, era stimato nel Medioevo come pianta in grado di guarire molte malattie. La pianta contiene un principio amaro (la cninina), tannini, sali minerali e vitamina B1. Il principio amaro facilita la secrezione della bile e dei succhi gastrici, rendendosi utile per quanti soffrono di disturbi digestivi. Lo stesso principio amaro è un valido aiuto contro l’inappetenza.

Raccolta: si impiegano le sommità fiorite e le foglie colte all’inizio della fioritura e fatte debitamente essiccare all’ombra.

Precauzioni: rispettare scrupolosamente le dosi perchè la cninina, glucoside amaro contenuto nella pianta, se ingerita in forti dosi causa vomito e malesseri gastrici.

Uso: Informazioni extra: in cucina il cardo santo può essere utilizzato lesso o unito in piccole dosi alla frutta nelle marmellate. Ottimo anche per bagni tonificanti.

Storia, leggenda, mito e magia: questa varietà, spesso eclissata dalle altre più vigorose, è la più celebre dal punto di vista della tradizione. Dal Medio-Evo è il Cardo magico per eccellenza, questa pianta, in generale, dona forza e protezione. Bruciare del Cardo infatti produce l’effetto di allontanare le negatività. Il Cardo Santo rientra inoltre negli ingredienti di antichi rituali di guarigione ed esistono ancora delle regioni dove se ne fanno delle pozioni ed infusi da somministrare ai depressi ed ai malinconici. Il pianeta legato al Cardo è Marte e le divinità associate sono Minerva e Thor. Pianta celebrata da Dioscoride già duemila anni fa, era coltivata nel Medioevo da frati ed erboristi nei loro orti per le proprietà medicinali. Si riteneva che esso possedesse, tra le altre, la virtù di rinforzare la memoria e di migliorare l’udito. Probabilmente questo attributo gli venne per le supposte proprietà cardiocircolatorie che favorendo la circolazione sanguigna, avrebbe aiutato l’irrorazione del cervello. Le prime tracce del Cardo sono state rinvenute prima in Etiopia e successivamente in Egitto.

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Piccole perle: per un’azione antisettica e detergente e cicatrizzante, utilizzare il decotto che si prepara facendo bollire 250 gr di acqua, 15 gr di foglie, fiori e fusto tritati finemente e ben essiccati. Dopo 25 m di bollitura togliere dal fuoco, filtrare, addolcire con un po’ di miele e bere caldo, oppure mettere sulla parte interessata la pappetta.

Iperico (Hypericum perforatum)

18 gennaio 2010

di Loriana Mari

Caratteristiche: uno dei nomi dell’iperico è millebuchi, perché, se guardato controluce, le sue foglie sono tutte bucherellate. Piccolo arbusto, dall’odore balsamico, che cresce nelle zone temperate di tutto il mondo. È ben riconoscibile anche quando non è in fioritura perché ha le foglioline che in controluce appaiono bucherellate, in realta sono piccole vescichette oleose da cui il nome perforatum. Le foglie sono opposte oblunghe. I fiori giallo oro macchiettati di nero ai margini hanno 5 petali delicati. Sono riuniti in pannocchie che raggiungono la fioritura massima verso il 24 giugno (ricorrenza di San Giovanni) da cui il nome popolare.

Proprietà: in erboristeria viene considerato un ottimo cicatrizzante e antispasmodico, oltre ad essere un eccellente rimedio contro gli eritemi e le scottature solari.

Alcuni studi clinici hanno dimostrato che l’iperico ha un’efficacia paragonabile ad alcuni psicofarmaci nella cura della depressione lieve e moderata. Il principio inizialmente ritenuto attivo era l’ipericina, ma i recenti sviluppi hanno chiarito che molte classi chimiche sono da considerarsi corresponsabili dell’attività: naftodiantroni (ipericina, pseudoipericina), floroglucinoli (iperforina), flavonoidi (amentoflavone), ed altri composti con probabili effetti di sinergia sia farmacodinamica sia farmacocinetica.

Habitat: in Italia è comune e cresce spontaneo negli incolti e lungo i margini di strade e sentieri, soprattutto su suoli calcarei, fino a 1600 m slm. Preferisce boschi radi e luminosi. Diffuso in tutte le regioni d’Italia, originario dell’arcipelago britannico,oggi in tutto il mondo. Predilige posizioni soleggiate e asciutte come campi abbandonati ed ambienti ruderali.

Storia, leggenda, mito e magia: l’uso dell’iperico si fa risalire ad Ippocrate, Dioscoride, Galeno e Plinio il vecchio, soprattutto come unguento per guarire la sciatica, ferite e ustioni.

Nel 1500 Paracelso le attribuì proprietà curative che, secondo la teoria delle segnature, la struttura forata delle foglie e il fatto che la pianta si colora di rosso, come il sangue, è adatta a curare le ferite. Inoltre ai suoi semi si attribuiscono le proprietà di “cacciar fuori le pietre dai reni e vale contro i morsi degli animali velenosi”

E’ conosciuta anche come erba di S. Giovanni perché fiorisce nel periodo del Santo, è chiamata anche scacciadiavoli poiché la tradizione popolare gli attribuiva poteri magici: si riteneva che allontanasse gli spiriti maligni e veniva utilizzato anche per purificare l’aria, infatti se schiacciato emana un gradevole profumo di incenso.

E’ una pianta molto efficace contro gli incantesimi, perché offre una vera protezione dalle fate. Essendo un simbolo del sole fu assai usata nella festa pagana del solstizio d’estate. Se si strofinano i petali gialli tra le mani colorano la pelle di rosso, probabilmente fu proprio questa particolarità a generare nel Medioevo la diceria popolare per cui l’iperico è uno strumento utile per la lotta contro il diavolo, un amuleto che teneva lontano anche gli spiriti cattivi. Motivazioni più serie hanno spinto a chiamare questa pianta “erba di S. Giovanni”. Si racconta infatti che i Cavalieri dell’ordine di S. Giovanni si curassero le ferite delle battaglie crociate  con il succo estratto dalle sue foglie.

Sin dai tempi più remoti l’Iperico è stato adoperato per allontanare gli spiriti malefici ed i demoni. I popoli del Nord ne appendono dei rametti sulle pareti e le finestre di casa come amuleto protettivo e portafortuna. Dominato dal Sole, l’Iperico è una pianta sacra al Dio nordico Balder.

La pianta è caricata auricamente oltre che per sua proprietà, anche dalla tradizione popolare, pertanto se tenuta in casa è una difesa contro le negatività. Invece non tutti sanno che l’iperico se è  raccolto di martedì  e di venerdì è di grande auspicio per i militari sia di ruolo che di leva. Deve essere portato addosso in un sacchettino di lino bianco e ricambiato ogni sei mesi. Dona forza e coraggio ed è potente come protezione contro le armi da fuoco, se portato con sé in un sacchettino di seta verde smeraldo durante la stagione invernale allontana i raffreddori e la febbre.

Piccole perle: uso esterno per piaghe e ustioni.

Decotto: 5 gr in 100 ml di acqua, fare lavaggi e applicare compresse imbevute. Olio: 30 gr in 100 ml di olio di oliva, aggiungere 10 gr di vino bianco e lasciar macerare al sole per 15 giorni agitando di tanto in tanto, filtrare e mettere sulle parti interessate.

MANDRAGORA (Mandragora Officinarum) Fam. Solanaceae

18 dicembre 2009

Loriana Mari

di Loriana Mari

Caratteristiche: la Mandragora è una piantina piccola , può raggiungere i 5 cm di altezza; in primavera assume una colorazione giallo verde . Queste piante non sono sempreverdi, quindi perdono le foglie per alcuni mesi all’anno. La Mandragora officinarum è una pianta per giardino roccioso.

Pianta erbacea perenne rosulata, di odore fetido, con grossa radice nerastra a fittone, spesso biforcuta e ramificata in modo ad aver un aspetto vagamente antropomorfo. Fusto nullo o brevissimo. Foglie tutte in rosetta basale, picciolate, glabre rugoso-reticolate, a lamina oblanceolato-spatolata alla fioritura, successivamente allungate, ondulata al margine e con l’apice acuminata, la venatura centrale ispessita. I fiori ermafroditi attinomorfi inseriti al centro della rosetta, con peduncoli pubescenti di 1,5-2 cm, accrescenti nella fruttificazione. La corolla è azzurro-violacea pallida a nervature reticolate e con tubo imbutiforme con lobi triangolari. Il frutto è una bacca elissoide giallo-rossastra contenente numerosi piccoli semi.

Habitat Specie con areale limitato alle coste mediterranee, (area dell’Olivo), negli incolti aridi, preferibilmente su suoli calcarei soleggiati, da 0 a 600 m. Presente, ma non comune, in Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, comprese le isole minori attinenti. Non più segnalata in Campania e Abruzzo, dubbia in Lazio.

Proprietà: Pianta estremamente tossica che contiene un complesso alcaloideo ad azione simile a quella dell’atropina, dello josciamina e della scopolamina, presenti anche in Atropa belladonna e Hyoscyamus niger, viene usata nella cura degli spasmi intestinali e nell’omeopatia come rimedio sedativo nei casi di asma e tosse.
Moderatamente dosata viene ancora utilizzata come preanestetico e sedativa, è antisettica la sua assunzione in dosi massicce provoca tachicardia, pressione alta, nausea, allucinazioni, vomito, diarrea, convulsione anche la morte.

In effetti la pianta contiene alcuni principi attivi (ioscina, atropina, mandragorina e iosciamina) che producono una specie di stato ipnotico nell’individuo, simile a quello riscontrabile nella fase REM del sonno, cioè quella in cui si sogna. La radice, una volta polverizzata e sciolta nel vino, in quantità di circa trenta granuli, produceva questi effetti, e la sua azione veniva intensificata con la mescolanza ad altre droghe. A chi avesse comunque usato o abusato di questa pianta, un antico codice del Cinquecento descrive la malattia ed il rimedio: “Colui che haverà bevuto il sugo della mandragora coi suoi frutti o la radice patirà rossezza di viso, d’occhi, stupidezza di mente et alienazione e pazzia e sonno profondo. La sua cura e prendere la triaca magna, distemperata nel vino, ma che sia subito tardargli il mangiare per un giorno e beva del vino eccellente puro e fiuti l’aceto gagliardo”.

Storia, mito, magia: Il nome del genere è assonante con il persiano “mandrun-ghia“, erba-uomo, che allude alla forma antropomorfa delle radici. La forma greca, ‘mandragoras‘, si trova già negli scritti di Xenofon e Teofrasto. Le testimonianze sulla mandragora e sul suo uso medicamentoso attraversano la storia delle erbe a partire dall’antica Grecia, e nella maggior parte dei casi concordano sulla sua capacità di causare un sonno profondo e ristoratore, sia che venga semplicemente posta la sua radice nella camera dove il paziente dorme, sia che venga mescolata al cibo, cotta nel vino; un’altra sua caratteristica e quella di fungere sia da afrodisiaco, in senso di stimolante sessuale dopo l’ingestione, che da amuleto atto a portare buona sorte nelle faccende amorose; in questo caso la radice intagliata secondo un modo particolare. Nota, infine, la sua capacità di “combattere” la sterilità: tanto e vero che addirittura la Genesi, uno del libri della Bibbia, ne parla, a proposito:

Ma nonostante questa evidentissima tradizione, i commentatori della Genesi notano che Dio non aveva mai benedetto la mandragora, dal momento che Rachele restò sterile e solo dopo sette anni poté concepire il proprio figlio Giuseppe. Possiamo quindi immaginare la fama sinistra che la mandragora acquistò con il tempo e soprattutto nel Medioevo, periodo in cui le sue qualità vennero particolarmente apprezzate, e che vide il moltiplicarsi delle leggende sia per quello che riguarda la sua nascita, sia per la sua raccolta che per il suo uso. Nel 1518, Niccolò Machiavelli scrisse una commedia burlesca, intitolata appunto la Mandragola, in cui la tradizionale capacità della pianta di essere un antidoto contro la sterilità, e l’altrettanto tradizionale potere venefico diventano nelle mani dell’autore il meccanismo adatto a far si che Callimaco, innamorato della moglie di Messer Nicia, la bellissima Lucrezia, possa finalmente amarla. Poiché la donna è sterile viene consigliato al marito di utilizzare la pianta; ma dal momento che la donna che piglia questo antidoto diventa “velenosa”, si consiglia all’uomo di lasciare che sia un altro a far l’amore con lei, per estirpare il maleficio. Inutile dire che sarà Callimaco stesso travestito a farlo.

La mandragora comunque è presente nelle novelle di Boccaccio e di Sacchetti, è più volte citata in Shakespeare. La si trova nel Faust di Goethe, e in autori del XIX secolo quali Hoffmann e Nadier. Nella letteratura minore italiana la troviamo nell’Incantesimo di Giovanni Prati, nell’ultima strofa della fiaba di Azzarellina: Làmpane graziose giran la verde stanza; e, strani amanti e spose, i gnomi e le mandràgore coi gigli e con le rose escono in danza. La mandragora arriva a noi dalla credenza popolare, dalla letteratura, dalla medicina che l’ha ampiamente utilizzata, soprattutto per i suoi effetti narcotici ma anche dal teatro e dal cinema.

Secondo alcuni la mandragora nasce principalmente dallo sperma che l’impiccato emette negli spasmi dell’agonia, e va quindi ricercata preferibilmente nei luoghi dove sono avvenuti questi supplizi: nei crocicchi o nei cimiteri.

Secondo altri, a causa della sua particolare similitudine con la forma umana è  più che le altre piante preda del demonio, e si raccomanda quindi chi desidera consumarla di pregare prima il Signore. Secondo altri ancora, a causa della pericolosità di questa pianta non bisogna toccarla con le mani, ma legarla con un laccio ad un cane e spingere l’animale a muoversi finché non la strappi dal terreno. Il cane è un chiaro simbolo riconducibile ad Ecate, divinità degli inferi, spesso rappresentata con tre teste, fra le quali una di cane ed è Ecate che invia agli uomini sogni angosciosi, che è protettrice delle streghe, che ingenera follia, gradirà il sacrificio del cane, inviato a lei dalla pianta che ingenera follia.

BUCANEVE (Galanthus nivalis)

3 dicembre 2009

Loriana Mari

Caratteristiche: pianta erbacea che appartiene alla famiglia delle Amarillidacee. E’ una pianta spontanea, che ha fusto eretto fino a venti cm, le foglie lineari, nastriformi, glauche, di colore verde bluastro si sviluppano solo nella parte basale della pianta. Il fiore solitario ha petali bianchi con sfumature verdi all’interno. Generalmente spuntano tra la neve a gennaio-marzo. I frutti sono costituiti da legumi lineari e subcilindrici.

Habitat: si trova facilmente nei prati umidi, negli incolti erbosi e nei boschi di latifoglie aperti dalla pianura fino alla zona montana.

Proprietà: come altre specie bulbose viene usato di rado a scopo medicinale anche se possiede particolari proprietà officinali. Svolge azione cardiotonica, ma può essere sfruttata raramente, per uso esterno favorisce la maturazione di ascessi, foruncoli e pustole ed è molto utile per eliminare le cipolle dei piedi.

Storia, leggenda, mito e magia: il nome del genere deriva dal greco e significa “latte e fiore”

La leggenda narra che Adamo ed Eva nei loro primi giorni sulla Terra camminavano oramai da molto tempo nel pieno gelo dell’inverno. Eva era ormai scoraggiata al pensiero di passare tutta la sua vita in quelle condizioni. A nulla valsero le attenzioni di Adamo, né la promessa di stagioni migliori fattale da un Angelo: Eva era più sconsolata che mai. Fu allora che l’Angelo mandato dal Signore soffiò su di lei dei fiocchi di neve comandando loro di trasformarsi in boccioli di speranza; questi giunti a terra, si mutarono in bucaneve. Eva finalmente rincuorata riprese il cammino al fianco di Adamo. Da quel giorno si dice che basta raccogliere un bucaneve nella prima notte di luna dopo la fine di gennaio per essere felici tutto l’anno.

Il bucaneve è anche chiamato “bicchiere della Madonna”, perché si dice che un giorno di febbraio Gesù avesse sete. La Madonna andò alla fontana ma la trovò gelata e disse: “ come farò a dare l’acqua al mio bambino?” la terra udendo le sue parole, fece spuntare dalla neve un bel fiore bianco dal quale la Madonna prese l’acqua e fece dissetare Gesù.

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ELLEBORO o rosa delle nevi (helleborus niger, foetido e verde)

3 dicembre 2009

di Loriana Mari

Caratteristiche: L’elleboro, della famiglia delle Ranuncolacee, è anche chiamata Rosa delle nevi o Rosa d’inverno e ha come vero nome “Helleborus niger”. In Inghilterra è considerata il fiore natalizio per eccellenza. L’elleboro è una pianta erbacea perenne rizomatosa, alta circa 30 cm; presente allo stato spontaneo nei boschi ombrosi calcarei, è diffusa come pianta da giardino a fioritura invernale. È costituita da foglie picciolate basali che permangono fino a dicembre. In questo periodo e fino a marzo circa, compaiono i fiori, grandi (diametro di 6-8 cm), di colore variabile dal bianco al rosa o al rosso vinoso. A fine marzo, alla scomparsa dei fiori e delle foglie vecchie, appaiono le nuove foglie che danno origine nel periodo estivo-autunnale a piccoli cespugli.

Habitat: cresce nelle zone collinari, fino al piano montano, nei boschi di latifoglie e nei cespuglieti

Proprietà: Per il contenuto in composti cardioattivi (elleborina ed elleborigenina) la cui azione danneggia il cuore, questa pianta è ritenuta molto tossica sia per gli uomini che per gli animali. Il rizoma di questa pianta contiene una sostanza narcotizzante che può essere efficace nei casi di crisi di follia, tuttavia la sua somministrazione esige uno stretto controllo medico.

Storia, leggenda, mito e magia: La leggenda narra che durante l’offerta di doni al Bambino Gesù, una pastorella vagasse in cerca di un dono da offrire, ma l’inverno era stato freddo e la poveretta  non riuscì a trovare neanche un fiore da offrire. Mentre si disperava, vide passare un angelo che intenerito dalle sue lacrime si fermò, spolverò un po’ di neve davanti a lei e apparvero delle candide rose, che la ragazza raccolse e portò in dono al Bambinello. Secondo un mito greco, Melampo, utilizzando l’elleboro, guarì dalla follìa le figlie di Preto, re di Tirino. ‘”Era bisogno dell’elleboro” era un modo proverbiale per indicare un matto. La pianta è velenosa ed era usata dagli adepti nei riti esoterici e nelle notti del sabba. La reale azione anestetica e narcotica del rizoma, dovuta alla presenza di un glucoside, l’elleborina, è simbolicamente associata alla capacità della pianta polverizzata di rendere invisibili le persone.

I contadini riconoscevano virtù profetiche a questa pianta. Credevano infatti di poter quantificare il raccolto in base al numero dei ciuffi che essa presenta.

MUGHETTO (Convallaria Majalis) Fam. Liliaceae

1 dicembre 2009

 

di Loriana Mari

Caratteristiche: pianta fiorita erbacea perenne con rizoma sotterraneo, strisciante, sottile, con due foglie ovato- lanceolate e fiori penduli profumati, bianchi e campaniformi, disposti in racemi unilaterali su di un lungo stelo angoloso; i frutti sono rossi e globosi. Può essere coltivato sia in interni sia in esterni. In  primavera, si sviluppa. uno scapo alto 15-20 centimetri che termina in un racemo per lo più unilaterale di sei-dodici fiori penduli, campanulati, bianchi, dal profumo intenso e molto gradevole; il frutto è una bacca globosa rossa-arancio.

Per la delicatezza dei fiori, per il soave profumo, perché sbocciano in maggio, i mughetti, insieme alle zagare, sono considerati i fiori delle spose.

Habitat: Spontanea nelle zone prealpine italiane, alta fino a 20 cm, diffusa in Europa Nord America e Asia.

Cresce nei boschi freschi di latifoglie, ai piedi di alberi e arbusti, ma prospera tranquillamente in giardino e, grazie alle sue ridotte dimensioni, anche in vaso. La pianta è resistente sia alle alte sia alle basse temperature e sia ai freddi intensi.

Proprietà: Sembrano usciti da un libro di fiabe ma ingannano. Il candido mughetto dal profumo intenso è velenoso in ogni sua parte anche se contiene, tre glucosidi impiegati in medicina: la convallarina, la convallamarina, e la convallatossina; quest’ultima presente quasi esclusivamente nei fiori, costituisce un energico cardiotonico, contiene glicosidi cardioattivi, infatti, è usato in fitoterapia per le sue proprietà cardiotoniche, in preparati contro leggere debolezze del muscolo cardiaco. La polvere dei suoi fiori agisce come stimolante per gli starnuti. Le saponine esercitano un’azione stimolante sugli organi della digestione. I preparati devono essere usati solo dietro prescrizione medica o il controllo di esperti. L’aroma di mughetto è molto usato in profumeria, anche se viene utilizzato prevalentemente quello di sintesi.

Storia, mito, magia: Il nome botanico deriva dal latino lillium convallium, giglio delle valli; invece convallaria majalis significa di maggio. Il nome Mughetto deriva dal francese Muguet. E’un fiore caro a Mercurio, il suo profumo ha il potere di rinforzare il cervello. Secondo una leggenda cristiana i primi mughetti sarebbero nati dalle lacrime della madonna sparse ai piedi della croce, per questa ragione , con il loro colore verginale simboleggiano la purezza.

E’ un fiore che, con il suo inebriante profumo, ha il potere di acuire la memoria. Nel linguaggio dei fiori può alludere alla verginità, , all’innocenza, alla felicità.

In Francia il primo maggio si porta all’occhiello per festeggiare la primavera, infatti, se passeggiate per Parigi in questo periodo dell’anno, vi verranno offerti per strada. Il suo fiore bianco, sempre in Francia, è sinonimo di un vero uomo che ostenta troppo la sua raffinatezza, simile all’inteso effluvio che esso emana.

Sempre un’antica leggenda francese racconta che più di mille anni fa viveva un uomo chiamato Leonardo, talmente buono che fu poi fatto santo. Un giorno egli regalò tutto il suo denaro e i suoi beni e si ritirò a vivere in solitudine in una valle nel folto della foresta. In quella valle viveva anche un drago di nome Tentazione, un mostro terribile, che assalii il santo ma questi lo scacciò.

San Leonardo e il drago combatterono battaglie terribili, ma ogni volta il drago ebbe la peggio, finchè lasciò definitivamente la valle. Ma sul luogo di ogni battaglia successe una cosa strana, sul terreno dove erano cadute le gocce di sangue di San Leonardo spuntarono dei fiori. Questi fiori, noti come mughetti, vennero chiamati gigli delle convalli a ricordo delle battaglie di San Leonardo nella valle contro il drago.

Si dice che l’usignolo a primavera aspetti le fioriture del primo mughetto per volare nel bosco a celebrare i suoi amori, i monaci, invece, usavano adornare l’altare con il mughetto che chiamavano “scala per il paradiso” per la particolare forma delle sue campanelle disposte come pioli di una scala.

Regalo azzeccato per festeggiare guarigioni, riconciliazioni, nuovi incontri con vecchi amici, amori ritrovati.

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Agrifoglio(Ilex aquifolium)Fam. Aquifoliacee

17 novembre 2009

 

di Loriana Mari

Caratteristiche: albero a chioma stretta e conica, presenta ramificazioni regolari da giovane che diventano disordinate con l’età, può raggiungere i 20 m di altezza. Le foglie sono lucide, lucenti persistenti in inverno, lunghe fino a 10 cm con apice e margini spinosi. I frutti sono bacche rosse larghe e polpose, molto appetite dagli uccelli ma velenose per l’uomo.

Habitat: originario dell’Asia Occ. e dell’Europa vive nei boschi foggio e di quercia. L’agrifoglio è una specie spontanea dell’Europa centroccidentale con un vasto areale che va dalle coste atlantiche e mediterranee alle regioni costiere dell’Asia Minore. Si trova preferibilmente nelle regioni con clima oceanico, caratterizzate da piovosità accentuata, limitata siccità estiva ed escursione termica moderata, dove cresce in boschi umidi di latifoglie, con preferenza per i terreni acidi. In passato si trovava spesso associato al tasso (Taxus baccata) a costituire una fascia quasi continua sulle Alpi e sull’Appennino al limite della faggeta. Ora l’agrifoglio si concentra nei boschi medio montani delle nostre regioni centromeridionali e nelle isole, specialmente in querceti, boschi misti di leccio e caducifoglie e faggete. Ha tronco diritto rivestito da corteccia verde-bruno scura. I fiori unisessuali, cioè solo maschili o solo femminili, sono portati da piante separate: l’agrifoglio è dunque una specie dioica e solo le piante femminili portano le drupe. E’ una pianta molto apprezzata per la sua eleganza e gli splendidi colori tanto che la raccolta eccessiva a scopo ornamentale sta mettendo in serio pericolo la specie. La fioritura avviene a  maggio-giugno e la fruttificazione in agosto-settembre.

Storia, mito, magia: Il nome latino della pianta, Ilex aquifolium (famiglia Aquifoliaceae), deriva da acrifolium: acer=acuto e folium=foglia, in riferimento alle foglie spinose. Come i rametti di pungitopo (Ruscus aculeatus), anche quelli di agrifoglio venivano posti sulle corde alle quali si appendeva la carne salata, per proteggerla dai topi: di qui il nome comune di “pungitopo maggiore”.

L’Agrifoglio è un albero dalla simbologia maschile, legato all’amore fraterno e alla paternità. Era considerato, insieme all’Edera e al Vischio, un potente simbolo di vita, per le sue foglie annuali e i suoi frutti invernali. Nelle quotidianità celtica si pensava che l’Agrifoglio fosse di aiuto e sostegno in ogni sorte di battaglia spirituale.

Una volta tanto Celti, Latini, Greci ed Etruschi si ritrovano perfettamente d’accordo: l’agrifoglio protegge dal male e garantisce fecondità e continuità della vita. In parte è un presagio ricavato facilmente dalle foglie spinose e coriacee e dai frutti rossi che maturano nel cuore dell’inverno, per cui è sempre stato al centro delle feste invernali appunto, dai Saturnali romani al Natale cristiano. Gli Etruschi però, come sempre, erano più precisi e la consideravano una pianta potente e pericolosa, vera e propria protagonista del bosco di confine della città, la famosa zona sacra che si stendeva tra le mura e l’abitato propriamente detto, ma per nessun motivo coltivata all’interno dei giardini domestici, forse anche perché i suoi frutti son velenosi per l’uomo anche se  costituiscono un vero e proprio cibo invernale per gli uccelli. L’Agrifoglio è simbolo di paternità e amore fraterno ed è sempre stato considerato simbolo di vita. Il suo legno veniva usato per costruire ottime lance facilmente bilanciabili nelle mani di un guerriero e precise nella direzione in cui venivano scagliate. Contornate da cristalli di brina, le pungenti foglie dell’agrifoglio non hanno perduto il loro verde scuro e lucidissimo, e le bacche scarlatte fanno capolino nel diffuso biancore, trasmettendo calore, vitalità e allegria. Queste particolarità hanno fatto di questo splendido albero un simbolo del Solstizio d’Inverno, un inno alla rinascita imminente del Sole caldo e luminoso, un augurio di gioia e buona fortuna per l’anno che deve venire. Le sue bacche soprattutto, anticamente erano viste come piccole eco del grande astro di cui si attendeva trepidanti il ritorno. Per questo, qualche giorno prima del Solstizio si usava regalare dei rametti di agrifoglio alle persone amate: essi rappresentavano l’immortalità, la sopravvivenza oltre la morte apparente, e avrebbero portato una piccola luce nel buio e un po’ di calore nel gelo, insieme alla fortuna che proviene dai regni della natura sottili. I druidi appendevano rami di agrifoglio nelle loro abitazioni per onorare con amore gli spiriti della foresta, e dopo di loro questa usanza continuò ad essere rispettata, con l’intento di allontanare sortilegi e fulmini, di propiziare la fertilità degli animali e della terra, e soprattutto la protezione dalle presenze malevole e dalla sfortuna. Le spine appuntite delle sue foglie, infatti, mostrano senza alcun dubbio la sua funzione di difesa naturale, di combattività verso ciò che è pericoloso o ostile, di reazione attiva agli stati d’essere negativi. I fiorellini bianchi dell’agrifoglio, appesi alla maniglia della porta di casa, si credeva ostacolassero l’entrata di persone o entità dannose, e questa forza magica si pensava fosse ancora più forte e potente se la porta stessa fosse stata costruita con il suo legno duro e resistente. Soprattutto durante le feste del Solstizio e del Natale una simile protezione sarebbe stata auspicabile, dato che in tal periodo i folletti del bosco si sbizzarriscono e sono molto più dispettosi del solito e si sbizzarriscono con i loro scherzi e le loro malefatte. Un’altra proprietà magica dell’agrifoglio era quella di ammansire gli animali selvatici e imbizzarriti, nonché quella di rendere più dolce e sopportabile il gelo dell’inverno, proprio come un piccolo Sole che agiva in modi misteriosi, forse scaldando e rallegrando l’anima più che il corpo.
Come albero simbolo del Solstizio d’Inverno, l’agrifoglio è anche legato alla parte calante dell’anno, quella che dal momento di maggior splendore del Sole porta al momento più buio e freddo. Esso rappresenta il Vecchio dell’anno passato, il Re Agrifoglio dalla lunga barba bianca e dal sorriso radioso che porta i suoi regali a chi ha conservato in sé uno spirito bambino. Egli, che a seconda delle tradizioni assume nomi diversi, non è altri che il dolce e caro Babbo Natale, che proprio per non dimenticare le sue antichissime origini, ancora oggi porta tradizionalmente un rametto di agrifoglio sul berretto. In Irlanda, se si ricevevano rami d’agrifoglio prima del Solstizio, questi venivano spazzati fuori subito dopo il Solstizio stesso, poiché non era di buon auspicio conservare le cose dell’anno vecchio, ed inoltre in tal modo si spazzava via tutto ciò che apparteneva al passato, potendo poi cominciare un nuovo ciclo più leggeri e con lo sguardo rivolto non indietro, ma avanti a se. Come accennato, l’agrifoglio era connesso anche alla Fortuna che poteva pervenire dai regni sottili. Questa sua magica caratteristica compare in una delle antiche leggende irlandesi appartenente al Ciclo di Finn Mc Cumhail, nella quale si racconta che le tre figlie di Conanan possedevano tre fusi costruiti con il suo legno. Su di essi le tre Donne avevano posto matasse di filo fatato ed avevano filato la sorte di Finn e dei suoi guerrieri, provocando il loro imprigionamento e forse, con esso, una delle prove che essi avrebbero dovuto superare.
In questo senso, l’agrifoglio risulta essere vicino alle sacre Filatrici del Destino, nonché loro stesso strumento per determinare la sorte degli uomini posti sotto la loro protezione.
Sempre tra i celti, con il legno dell’agrifoglio si costruivano le lance e gli scudi dei guerrieri. Anche in questo caso appaiono chiaramente le funzioni di attacco alle forze ostili e, al contempo, difesa da esse, esercitate dalla pianta e probabilmente resi ancor più potenti ed efficaci dai suoi influssi sottili.

Anche i neonati potevano essere protetti da questo magico arbusto; per questo venivano spruzzati con l’Acqua di Agrifoglio, preparata come infuso delle foglie oppure come distillato.
Infine, pare che un antico incantesimo usasse l’agrifoglio per attirare i desideri del cuore. Se ne dovevano raccogliere nove foglie da una pianta non troppo spinosa, dopo la mezzanotte di un venerdì, nel più completo silenzio. Le foglie dovevano essere avvolte in un panno bianco, alle cui due estremità si dovevano fare nove nodi. Il sacchettino andava quindi riposto sotto al cuscino e ciò che si sarebbe intensamente desiderato, poggiandovi sopra la testa, si sarebbe presto avverato.

Nel Medioevo era associato al diavolo, per via delle foglie spinose, ma in ogni altro periodo e presso ogni popolo è sempre stato amato da tutti, perché le allegre bacche colorano i boschi in pieno inverno. Già per i Celti l’agrifoglio era una pianta sacra, ma in Italia la tradizione di usare l’agrifoglio a scopo augurale è arrivata grazie ai Romani che, conquistata la Bretagna, scoprirono che i sacerdoti celti usavano la pianta per proteggere le persone dai disagi dell’inverno e per ammansire gli animali; i Romani iniziarono a donarne i rami agli sposi novelli, come augurio e, durante i Saturnali, ne tenevano ramoscelli come talismani, e li piantavano vicino alle case per tener lontani i folletti che, secondo la tradizione, amavano architettare molti scherzi in questo periodo, ne decoravano la casa nel periodo dei Saturnali. L’agrifoglio era la pianta sacra di Saturno e veniva usato durante i Saturnalia per rendere onore al dio. I romani erano soliti fare delle ghirlande di agrifoglio per decorare le statue di Saturno. Secoli dopo, in Dicembre i primi cristiani iniziarono a celebrare la nascita di Gesù. Per evitare persecuzioni continuarono ad ornare le loro case con l’agrifoglio durante i Saturnalia. Una leggenda racconta di un piccolo orfanello che viveva con alcuni pastori quando gli angeli araldi apparvero annunciando la lieta novella della nascita di Cristo. Il bambino si mise in cammino verso Betlemme con gli altri pastori e sulla via intrecciò una corona di rami da portare in dono a Gesù Bambino. Ma quando pose la corona davanti al Bambinello gli sembrò così indegna che si vergognò del suo dono e si mise a piangere. Allora Gesù Bambino toccò la corona e le sue foglie brillarono di un verde intenso e trasformò le lacrime dell’orfanello in splendide bacche rosse. Con l’avvento del Cristianesimo l’Agrifoglio divenne l’Albero Santo a rappresentare la Croce di Spine.

Piccole perle:

In caso di allergie consultare sempre il medico e assumere sempre sotto il controllo del medfico.

infuso per contrastare l’influenza: mettere 1 o 2 cucchiaini di foglie d’agrifoglio fresche, spezzettate, in una tazza d’acqua, lasciando riposare per una notte. La mattina seguente far bollire brevemente il composto, zuccherare, preferibilmente con del miele, e bere durante la giornata, anche due tazze al giorno.

Vino d’agrifoglio contro la febbre: far macerare 25 grammi di foglie fresche, pestate nel mortaio, in mezzo bicchiere di alcool a 60° per una settimana. Aggiungere poi una tazza di vino bianco e lasciar riposare ancora per una settimana, al termine della quale il preparato andrà filtrato. Assumere due cucchiai di vino d’agrifoglio per tre volte al giorno.
Vino d’agrifoglio per calmare la diarrea: in un litro di vino rosso bollente mettere 30 grammi di foglie fresche d’agrifoglio, facendo bollire il tutto per circa 10 minuti. Assumere durante la giornata, in cucchiai da tavola, senza però mai superare i 70 grammi.
Decotto per combattere la bronchite: bollire a fuoco basso 30 grammi di foglie d’agrifoglio essiccate in un litro d’acqua, per 10 minuti. Sciogliere del miele, far raffreddare e bere due tazze al giorno.

 

Sambuco nero

14 novembre 2009

di Loriana Mari

(Sambucus nigra)

Fam. Caprifoliaceae

sambuco 1

Caratteristiche: è un arbusto alto fino a 7 m, con chioma globosa, espansa di colore verde intenso, con tronco sinuoso e ramificato, con corteccia fessurata e di colore grigio-brunastra. Fiorisce a primavera e i suoi fiori bianchi profumatissimi sono raccolti in grandi ombrelli. Al termine della fioritura che avviene ad agosto si formano delle bacche nero bluastre usate per preparare sciroppi e marmellate. Ricordarsi sempre che le bacche devono essere raccolte quando sono molto mature e cioè a fine agosto, altrimenti possono risultare lassative.

Habitat: originario dell’Europa, della Siberia Occ. Del Caucaso e dell’Asia Min. è una specie comune in tutta Italia. Cresce nella zona montana, nei luoghi ruderali, lungo le siepi e i fossi, nei boschi radi fino a 1000 m slm.

Proprietà: Una delle tradizioni contadine legate al sambuco e alle sue proprietà medicinali era quella di inginocchiarsi sette volte di fronte alla pianta, perché sette sono le parti del sambuco utilissime per la cura dell’uomo: i germogli, le foglie, i fiori, le bacche, la corteccia, le radici e il midollo. I germogli sono utili per calmare la nevralgia, preparati in decotto consumato caldo.Le foglie curano le malattie della pelle, se applicate come impacchi, ma possono anche calmare il dolore e l’infiammazione di scottature e ferite. Insieme ai fiori curano le emorroidi e gli ascessi.

I fiori, invece, sono un ottimo depurativo e diuretico, possono essere adoperati per contrastare il raffreddore e le malattie invernali quali influenze e febbri lievi (sono febbrifughi, rilassanti e stimolano la sudorazione), e sono un buon rimedio contro i geloni e la bronchite. Inoltre sono disintossicanti, curano gli occhi (irritazioni e orzaiolo) e, se usati in lozione, rendono la pelle morbida.

Le bacche curano le infiammazioni di bronchi e polmoni, se consumate in sciroppo; sono ricche di vitamine e quindi utili per prevenire raffreddamenti invernali, rinforzano il sistema immunitario e, sempre consumate in sciroppo, curano le infezioni. Inoltre sono lievemente lassative, e quindi ottime contro la stitichezza.

La corteccia, similmente alle bacche, è lassativa, ma può essere anche emetica (favorisce il vomito), a seconda della quantità ingerita. Posta fresca sugli occhi cura le irritazioni.

La radice bollita e pestata cura la gotta e, infine, il midollo, ridotto in pappa e unito a farina e miele, lenisce il dolore provocato dalle lussazioni.

Storia, mito, magia: il nome greco del sambuco “Actè” significava “nutrimento di Demetra”, evidentemente per l’utilizzo che veniva fatto delle sue bacche (nere per il Sambucus nigra, rosse per il Sambucus racemosa).

Il significato latino del nome di questa pianta ha invece un’altra origine: da sambucus, che richiama la sambuca, una macchina da guerra triangolare (una sorta di ponte levatoio che veniva utilizzato durante gli assedi) – ancora in uso nel Medioevo.  La parola “sambuco” indicava anche un piccolo flauto, ancora oggi facilmente realizzabile con un ramoscello di questa pianta priva del midollo interno.

In Bretagna, Danimarca, Russia e altri paesi, questa pianta veniva utilizzata per proteggere le case dai malefici;

D’altra parte il sambuco poteva anche attirare i poteri maligni, per esempio se veniva bruciato dall’uomo.

Il sambuco è un albero molto amato dalle fate e dalle luminose entità che abitano il magico mondo al di là del velo del visibile.

In molti paesi e culture, soprattutto celtiche e nordiche, esso era considerato una delle maggiori rappresentazioni della Grande Madre perché si diceva che il suo divino potere femminile scorresse nelle dure vene legnose della pianta, e la rendesse quasi un essere animato che incuteva non poco timore.

I suoi colori mostravano soprattutto la Dea nel suo triplice volto, in cui i fiorellini delicati, profumati e bianchi rappresentavano la Fanciulla Vergine, il verde dei rametti e delle foglie la Madre rigogliosa e le bacche nero violacee la Strega oscura. Ma nonostante questo, secondo le tradizioni, era l’aspetto più potente e incontrollato della Strega a prevalere nel sambuco, a tal punto che si credeva che l’albero non fosse realmente un albero, ma una strega trasformata in albero, o un qualche simile essere inquietante e pericoloso.

Per questo il sambuco era associato all’oscurità, alla magia, alla divinazione, ma anche al viaggio verso le profondità della terra bruna e, in particolar modo, alla morte.

Il profumo dei fiori si diceva che portasse nell’Altromondo, e dormire sotto le sue fronte poteva voler dire non svegliarsi mai più: l’anima sarebbe stata rapita dalle creature fatate e non sarebbe più tornata ad abitare il corpo, abbandonato al sonno eterno.

Il sambuco era considerato, quindi, una Porta di Morte, ma anche di rigenerazione e nutrimento, dato che ogni sua parte recava aiuto all’uomo contro malesseri e malattie, e le sue bacche erano fonte di cibo per gli antichi.

Nel calendario arboricolo celtico, il sambuco è l’albero del tredicesimo mese, l’ultimo del ciclo, il cui apice corrispondeva al Solstizio d’Inverno e quindi al buio peggiore, alla sterilità e al freddo, portati dall’orrenda Megera dal volto mortifero.

Lo stesso numero tredici simboleggia la fine di un ciclo, la morte, ma anche l’Iniziazione e la rigenerazione.

Tutti poteri insiti nello spirito del sambuco e connessi alla sua natura oscura.

I nomi con cui veniva chiamato rispecchiano tutti l’amore e il rispetto reverenziale che si provava nei confronti di questo splendido essere vegetale.

“Nostra Signora” o “Madre Sambuco”, tra i celti, e “Albero di Holle” (holun tar) tra i germani.

Quest’ultimo richiamava la leggenda nordica secondo cui una magnifica fanciulla dai capelli color dell’oro abitasse l’albero di sambuco. Ella amava questo albero soprattutto se cresceva vicino a sorgenti e fiumi, cascatelle e ruscelletti, in cui poteva bagnarsi come una ninfa dei boschi.

La misteriosa fanciulla non era altri che Holle (Holda/Holla), la Regina delle Fate e Dea nordica, la quale poteva apparire in queste vesti affascinanti, ma poteva anche mostrarsi nella guisa di una strega terribile, con lunghe e pericolose zanne e lineamenti alquanto selvatici. Ella, infatti, era sì la splendente e luminosa Madre, ma era anche Signora del regno sotterraneo ed infero, ed era quindi legata al potere ctonico e alla Morte.

Nell’aspetto di una bizzarra donnina con lunghe e pericolose zanne, Holle appare nella dolcissima fiaba Frau Holle (Signora Holle), trascritta dai fratelli Grimm, in cui ella (chiaramente più simile ad una strega che ad una fata) rappresenta la madrina nutrice e la Maestra che aiuta le fanciulle meritevoli nel loro cammino iniziatico verso la conoscenza dei mondi sottili.

Ma non solo la bellissima Regina delle Fate abitava il sambuco…

Miriadi di elfi e coboldi si nascondevano al suo interno, e mentre i primi prediligevano i suoi cespugli, i secondi preferivano di gran lunga accoccolarsi nel tenero midollo dei suoi ramoscelli.

Nella bella festa di Mezz’Estate, tra gli abitanti degli antichi paeselli pagani, si usava andare alla ricerca dello spirito del sambuco, danzando intorno alla pianta con coroncine fatte con i suoi fiori tra i capelli, e si può presumere che le fate stesse si divertissero a danzare insieme alle donne e agli uomini, in una splendida gioia condivisa.

In Svezia si diceva addirittura che, durante questa magica festa, se ci si fosse nascosti sotto ad un sambuco, si sarebbe potuto assistere alla processione fatata del Re degli Elfi e della sua corte.

Inoltre si credeva che il succo verde interno alla corteccia di questa magica pianta, se usato esternamente, avrebbe donato la Vista (o seconda vista), potere ottenibile anche soltanto cingendosi la fronte con le sue foglie e la sua corteccia.

I contadini tedeschi, che nutrivano infinito rispetto per il sambuco, quando avevano bisogno di tagliarne un pezzetto si inginocchiavano davanti al suo fusto con le mani giunte in preghiera e invocavano: “Signora Sambuco, dammi un po’ del tuo legno e io te ne darò un po’ del mio, quando crescerà nella foresta”.

Essi credevano anche che lo Spirito materno dell’albero avrebbe lenito i loro dolori, e quando avevano un fastidioso ascesso, si recavano al sambuco per invocare l’aiuto della Signora e per prelevare una scheggia dalla corteccia dell’albero. Tornati a casa, si incidevano le gengive con questa e la sporcavano di sangue. Poi tornavano al sambuco, camminando all’indietro, e riponevano la scheggia laddove l’avevano presa. In questo modo la Fata li avrebbe guariti.

Proprie del sambuco erano anche alcune proprietà divinatorie. Se in estate i suoi fiori fossero stati di un bel colore giallo, o meglio ancora, ruggine, sarebbe arrivato un bimbo; se avesse mostrato, invece, fiori piccoli e sottili, il raccolto sarebbe stato povero, ma se i fiori erano corposi e forti il raccolto sarebbe stato ottimo.

Nelle leggende germaniche il flauto magico era un ramoscello di sambuco svuotato del midollo, che si doveva tagliare in un luogo dove non si potesse udire il canto del gallo che lo avrebbe reso roco: i suoni che se ne traevano proteggevano dai sortilegi, come testimonia l’opera di Mozart “Il Flauto Magico”, probabilmente richiamava l’attenzione degli spiriti silvestri, tutte le malie sarebbero scomparse, insieme alla sfortuna, alle negatività e alla tristezza.

La devozione nei confronti del sambuco era dimostrata anche dai molti doni che venivano posti ai suoi piedi.

In Scozia si portavano dolci e latte all’ombra del sambuco e anche in altri paesi nordici si usava portare il latte, ma anche pane e birra.

Tra i celti il sambuco veniva piantato vicino a case, stalle e castelli, perché avrebbe protetto la famiglia da malefici e serpenti velenosi. Le fate che lo abitavano avrebbero mostrato benevolenza se fossero state coccolate con amore e cure costanti, ma se fosse capitato il contrario avrebbero portato sfortuna e incidenti. La cura inoltre doveva procedere di generazione in generazione, come una tradizione tramandata di madre in figlia, di padre in figlio, a cui tutti dovevano partecipare attivamente.

Naturalmente era vietato sradicare o tagliare la pianta, e bruciare la stessa avrebbe recato una grave offesa alla Dea, che tra tutti gli alberi desiderava che questo fosse preservato dal fuoco.

Un’altra precauzione nei confronti del sambuco consisteva nell’evitare che i bimbi piccoli dormissero in culle fatte con il suo legno. Avrebbero, infatti, patito i dispetti delle fate, che potevano prenderli a morsetti e pizzicotti fino a far loro uscire il sangue.

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Molte tradizioni e leggende furono rivisitate dai primi cristiani che, non riuscendo ad estirparle non potevano far altro che volgerle a proprio vantaggio.

Così, se prima il succo del sambuco aiutava ad acquisire la Vista dei popoli fatati, ora si diceva che spalmandolo sugli occhi (o usandolo come collirio) si sarebbero potute vedere le streghe, per scovarle ed ucciderle; se prima bruciarne il legno avrebbe offeso la Dea, ora bruciarlo avrebbe portato il Diavolo in casa.

Nel XIII secolo, in Francia, un monaco lamentava il perdurare, nonostante i divieti, dell’usanza secondo cui le donne portavano i loro bambini ai piedi del magico sambuco per recarvi doni e offerte, mentre le fanciulle incinte continuavano a baciarne la corteccia per ottenere un parto facile.

E nonostante tutti i tentativi, ciò che si voleva eliminare continuò a vivere, giungendo fino a noi.

Interessantissima, infine, è la leggenda russa legata al sambuco, secondo la quale tutte le malattie mortali si credeva fossero personificate dalle Dodici Vergini (ma a volte erano Nove). Queste giungevano dall’oceano come spiriti e salivano la montagna sacra fino a giungere dai Tre Sambuchi Anziani, dai quali ottenevano la conferma che ogni essere vivente che appartenesse alla terra era soggetto alla morte.

Questa storia veniva raccontata dalle donne quando i loro villaggi erano minacciati da epidemie e malattie mortali, e mentre raccontavano tracciavano con l’aratro un profondo solco intorno al loro abitato, perché così, dicevano, sarebbe stato il più possibile protetto dalla sciagura e dagli spiriti del male.

Esiste una credenza contadina secondo la quale Giuda si sarebbe impiccato a un albero di sambuco: da allora le sue bacche diventarono così amare da non poter essere mangiate.

L’essenza del sambuco è mutevole, inafferrabile.

È un’essenza in cui il volto della Strega oscura e quello della Fata luminosa si uniscono in un unico essere dalla magia ambivalente, pericolosa da un lato e estremamente benevola dall’altro.

La Strega che lo abita ricorda i rapaci notturni, la cui vista è in grado di penetrare il buio più nero, e l’albero stesso forniva, con la sua linfa, una magica sostanza che avrebbe mostrato la verità oltre il visibile. Il sambuco cela tra le sue venature e i solchi della sua ruvida corteccia gli Occhi Nascosti, quelli in grado di vedere oltre il velo della materia.

Il suo Dono è la Visione Divina, la magia che fa scostare i veli della nebbia e fa intravedere il Mondo al di là di essi e le eteree creature che lo abitano.

Piccole perle:

Ricette curative (e golose!)

(in caso di allergie consultare sempre il medico)

Cataplasma per lenire gli ascessi: sminuzzare e pestare foglie fresche e fiori di sambuco e aggiungere del sale al composto. Applicare una piccola quantità direttamente sull’ascesso.

Infuso per abbassare la febbre: in un litro di acqua bollente lasciare in infusione 40 g di fiori di sambuco, per 10 minuti. Addolcire con un po’ di zucchero o miele, a seconda dei gusti, e bere caldo. Questo infuso provoca la sudorazione e abbassa, così, la febbre.

Cura per i geloni: lasciare in infusione 30 g di fiori di sambuco in un litro di acqua bollente per 10 minuti. Lasciar raffreddare un poco e immergere le dita o tutte le mani nel liquido caldo, per diversi minuti.

Decotto contro la stitichezza: porre 80 g di bacche mature di sambuco in un litro d’acqua fredda e portare il tutto ad ebollizione. Lasciar bollire per 3 minuti e spegnere il fuoco. Consumare mezzo bicchierino di questo decotto prima di andare a letto.

Acqua di sambuco per occhi irritati o arrossati: lasciare in infusione in un litro di acqua bollente 50 g di fiori di sambuco per 15 minuti. Lasciar raffreddare e nel frattempo lavare accuratamente gli occhi con acqua fresca. Imbevere due compresse (panno o cotone) nel preparato e porre su ciascun occhio per 15 minuti. L’acqua di sambuco è anche utile per lenire le bruciature e come tonico per la pelle.

Succo di bacche di sambuco: questo succo è un ottimo curativo e ostacola le infezioni. Per prepararlo lasciar cuocere per qualche minuto (5 circa) 80 g di bacche mature. In seguito pestare bene le bacche e filtrare. Addolcire la bevanda calda con zucchero o miele e berne un bicchierino.

Frittelle di sambuco: preparare una normale pastella per frittelle e, dopo averli accuratamente lavati e privati degli steli, immergere i fiori nell’impasto (una ombrella di fiori per ogni frittella, o meno a seconda dei gusti).

Cuocere le frittelle con un poco di burro per non farle aderire alla padella. Il profumo dei fiori si diffonderà in tutta la cucina.

Bevanda rinfrescante di sambuco: porre sette grandi ombrelle di fiori di sambuco e due o tre fette di limone in sette litri d’acqua fredda per tutta la notte. Il giorno seguente far bollire la bevanda per qualche minuto e addolcirla con circa un kg di zucchero o con miele, a seconda dei gusti. Imbottigliare e bere nei mesi caldi.

VISCHIO

14 novembre 2009

vischio

 

( Viscum album)

Fam. Lorantacee

 

 

di Loriana Mari

 

 

 

Caratteristiche: il vischio è una pianta legnosa, alcuni sono sempreverde, perenne e semiparassita che appartiene alla Famiglia delle Lorantacee. Affonda le sue radici nei tronchi di vari alberi e si alimenta della loro linfa; le foglie racchiudono bacche gelatinose, somiglianti a perle, che contengono un solo seme immerso in una polpa vischiosa, grazie alla quale aderiscono alla pianta ospite per il tempo necessario  a sviluppare gli aresteni. I suoi semi per germinare hanno bisogno della luce del sole e allo stadio adulto il vischio riesce a produrre clorofilla anche al buio. In realtà non è nemmeno una pianta, ma un semi-parassita, perché dotato di polloni che penetrano nel tronco dell’ospitante assorbendone la linfa, ma indipendente per lo sfruttamento dell’acqua e della luce, dato che produce da sé la clorofilla. Non è quindi nocivo come l’edera, che può portare alla morte l’albero a cui s’attacca. Cresce più volentieri sugli alberi da frutto, ma è facile vederlo sui pioppi, pini ed abeti. Il famoso vischio della tradizione celtica era esclusivamente di quercia.

Habitat: diffuso in gran parte dell’Europa e dell’Asia, in Italia cresce fino ai 1200 m slm, soprattutto nelle zone boscose di latifoglie.

Proprietà: le caratteristiche medicinali del vischio, conosciute già dai tempi di Ippocrate e Plinio, sono assai interessanti e di recente si sono scoperte anche le sue proprietà antitumorali, sulle quali procedono tuttora le ricerche. Le parti utilizzate sono le foglie che contengono colina e acetilcolina, sostanze che agiscono sul sistema neurovegetativo. Un uso esagerato di esse può causare la morte per arresto cardiocircolatorio. Le bacche sono tossiche e se ne sconsiglia l’uso medicinale. Le sue proprietà sono: ipotensivo e vasodilatatore, antispasmodico e sedativo, diuretico e depurativo. Anche la farmacopea moderna esprime molte riserve sul suo uso: in dose eccessive provoca la perdita della sensibilità, una progressiva paralisi ed addirittura l’arresto cardiaco! D’altra parte pare che sia l’unico regolatore naturale della pressione arteriosa, ottimo antiemorragico, analgesico e naturalmente diuretico. Un tempo si usava con successo contro l’epilessia, l’asma e l’isteria e qualcuno lo ha lanciato anche come anticancerogeno. Attualmente gli erboristi gli preferiscono specie meno pericolose.

Storia, magia e leggenda: il vischio è sempre stato considerato una pianta sacra, una specie di miracolo della natura che d’inverno spicca nei boschi quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il Vecchio descrive i rituali delle popolazioni galliche che accompagnavano la raccolta del vischio: “…nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno i druidi si avvicinavano alla quercia indossando candide vesti e conducendo due tori bianchi. Il capo dei sacerdoti saliva sull’albero e usando un falcetto d’oro tagliava i rami del vischio che venivano raccolti in una pezza di lino bianca, prima che cadessero a terra. Poi immolati i due tori, pregavano per la prosperità di quanti avrebbero ricevuto il dono.”

L’uomo è stato sempre incuriosito dai mazzi verdeggianti quasi sospesi sulle piante, ricchi di bacche perlacee, in un periodo nel quale la natura non produce alcun frutto. Questa pianta che cresce senza toccare terra è ancora oggi bene augurante: come da tradizione la notte di S. Silvestro ci si scambia saluti e auguri sotto il ramo di vischio, che non deve mai toccare terra per non perdere i suoi poteri magici, infatti  è considerato un amuleto contro le disgrazie e gli influssi negativi; e se si passa in compagnia sotto un cespo di vischio ci si deve baciare, ma se una ragazza non riceve questo bacio rituale non si sposerà nell’anno successivo. Viene generalmente appeso sulla porta di casa, là, come diceva Plinio tra cielo e terra. Molte di queste usanze ci giungono dai Celti, che la consideravano una pianta donata dagli dei, favoleggiavano che nascesse là dove era caduta la folgore, simbolo di una discesa della divinità e dunque di immortalità e di rigenerazione. Queste caratteristiche non potevano non ispirare ai cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo, nato in modo misterioso, parte dall’umanità, ma separato da essa per la sua natura divina. Prima di questa elaborazione divina la Chiesa non aveva voluto ammetterlo tra i suoi ornamenti perché legato alla tradizione pagana.

Strana pianta lo definisce Mességué nel suo celebre erbario, verde quando tutti gli altri alberi sono spogli, prende una forma perfettamente sferica, ha un indefinibile colore pastello, foglie ovali simili ad orecchie di coniglio, bacche bianche, che sono il cibo preferito di tordi, merli, cinciallegre e capinere. Una volta raccolto perde i colori originari per divenire sempre più dorato, tanto che tra le varie proprietà magiche che gli sono state attribuite c’è la capacità di brillare nel buio in prossimità di giacimenti d’oro. Il vischio dei Celti era esclusivamente di quercia, l’unico, tra l’altro, che abbia le bacche color dell’oro e veniva raccolto solo in caso d’effettiva necessità, con una piccola falce d’oro usata da mani pure, a digiuno, vestiti di bianco ed a piedi nudi, offrendo in cambio alla foresta una libazione di pane e di vino, perché la leggenda racconta che proprio quando il vischio fu strappato per la prima volta dalla quercia, il buon dio Bälder venne a morte. In realtà il vischio è un parassita e strapparlo non reca alcun nocumento, anzi… ma all’epoca in tutta Europa si pensava diversamente e lo stesso Enea per entrare nell’Ade reca in mano un rametto di vischio. La tradizione scandinava è ricca di racconti e leggende legate al vischio. Già nell’antichità i druidi lo usavano per ottenere infusi e pozioni medicamentose, al fine di combattere malattie ed epidemie che flagellavano e decimavano le popolazioni del tempo; presso i druidi, infatti, il vischio era conosciuto come la pianta in grado di guarire da qualunque malattia. La mitologia norvegese sottolinea il legame col dio Bälder, che morì colpito appunto dal vischio. In memoria del dio, i norvegesi sono soliti bruciarne i rami in prossimità del solstizio d’estate, con lo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità ed il benessere. Probabilmente il significato oggi attribuito alla pianta deriva da queste antichissime credenze popolari, anche se per motivi non del tutto chiari il rito è stato “spostato” all’epoca del solstizio d’inverno. Siamo soliti, infatti, donare o tenere in casa rami di vischio tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno nella speranza di proteggere in tal modo noi stessi, le persone a noi care e la nostra casa dai guai e dalle disgrazie. In effetti i norvegesi bruciavano il vischio d’estate… non è escluso che fosse proprio vischio regalato o raccolto in inverno e gelosamente conservato fino allora! Naturalmente non abbiamo elementi per chiarire il significato del tutto.  Il fatto che la pianta apra per Enea le porte dell’Ade non costituisce propriamente una spiegazione,  ma forse accresce il mistero. Dato che invece continuiamo a baciarci sotto il vischio ad ogni capodanno la sua valenza è essenzialmente quella di portafortuna, attenzione però: qualora si volesse raccogliere a mani nude, soprattutto usando la sinistra, si rischierebbe la mala sorte! Inutile dire che nessuno è più soggetto a questa tentazione, dato che il vischio ormai da anni compare già confezionato e dorato direttamente nelle botteghe dei fioristi. In Francia per le feste natalizie è venduto al naturale, come qualsiasi fiore reciso.

 

 

 

 

 

 

 

ARTEMISIA

31 ottobre 2009

artemisia

(artemisia in genere)

di Loriana Mari

Caratteristiche: erba perenne a radice grossa, fusto eretto ramoso, foglie alterne profondamente divise. Tutta la pianta emana odore aromatico. Fiorisce da maggio a settembre con grappoli minuti di fiorellini gialli e, sono appunto questi rametti in fiore essiccati all’ ombra che costituiscono la parte medicinale.

Habitat: E’  una pianta diffusissima lungo i muri, nei luoghi aridi sia montani che di pianura.

Proprietà : E una pianta molto amara (la più  amara dopo la ruta), velenosa, incompatibile con i sali di zinco, piombo e ferro. Un tempo celebre, il liquore d’assenzio è  oggi proibito in quasi tutti i paesi poichè  in alte dosi è velenoso. Viene utilizzato, con altre sostanze, in aperitivi, vermouth, ecc. La pianta fu usata per molto tempo per curare l’epilessia e il ballo di S. Vito. Viene usata in medicina da coloro che soffrono di disfunzioni digestive e inappetenza (un rametto macerato in acqua o in infusione), o come vermifugo in combinazione con aglio. E’ controindicata  nelle gastriti, coliti, e in gravidanza. La pianta polverizzata o in infuso è utile contro le tarme; coltivata vicino ai pollai previene i pidocchi, vicino ai cavoli allontana le farfalle cavolaie e sotto gli alberi da frutto gli insetti nocivi, appesa nei granai è utile contro gli scarafaggi. Il gambo bollito si usa per tingere di giallo. Ricca di proprietà aperitive e digestive deve essere comunque usata con precauzione perchè  in dosi eccessive può  rivelarsi tossica. A questa pianta si attribuivano  tanti poteri che nel IX secolo, nel suo Hortulus, il monaco erudito Wahalafrid Strabo affermava che le sue virtù  erano tante quante le sue foglie. Le proprietà medicinali delle Artemisie furono scoperte dalle popolazioni delle zone semi aride e temperate, dove crescono spontanee. Nel testo greco di Dioscoride, l’assenzio è citato come rimedio contro i vermi intestinali.  Gli indiani dal Nuovo Messico alla Colombia usano varietà affini per curare bronchiti e raffreddori. Ancor oggi i Cinesi introducono nelle narici una foglia di assenzio arrotolata per fermare le epistassi. Molto usato nell’industria dei liquori. In medicina si utilizzano le parti aeree fiorite come corroboranti digestive, eccitanti, energetiche, neurotoniche, specifico per il mal di montagna. Si rispettino sempre scrupolosamente le dosi in quanto contengono principi molto attivi.

Storia, leggenda, mito e magia: Il nome deriva da “Artemisia”  e da”Absinthium” che significa “privo di dolcezza”. Secondo un’ altra etimologia, il nome pare derivi da Artemide, la dea protettrice delle piante medicinali chev giovano all’ organismo femminile. Secondo i medici arabi questa pianta era considerata un antitodo contro il veleno dei serpenti.infatti Plinio chiamava un tipo di Artemisia (il dragoncello) “dracunculus”, che significa piccolo drago o serpente, da qui il diminutivo italiano dragoncello. Considerato che il pensiero dell’ epoca si fidava più dell’ apparenza che dell’ anatomia, non c’era molta differenza tra un serpente e l’ organo fecondatore maschile, oggetto dell’ orrore di Artemide. Ipotesi confermata dal nome popolare della pianta: “erbadelle vergini”. Il nome di questa pianta è probabilmente legato alla regina Artemisia che per prima ne scoprì  e divulgò  le virtù  terapeutiche. Artemisia II, sorella e moglie di Mausolo, re della Caria, regnò nel 353-352 a.C., dopo la morte del sovrano. In suo onore eresse una tomba detta Mausoleo, una delle sette meraviglie del mondo. Esperta di botanica e medicina, diede il suo nome a questo genere di piante, comprendente più  di 200 specie aromatiche. Bruciata da sola o con altre erbe appropriate sviluppa dei principi attivi che favoriscono gli stati medianici ed i poteri psichici. In Inghilterra questa pianta è infatti parte integrante di rituali evocatori e spiritici. In molti luoghi (compresa l’ talia) viene invece utilizzata per scacciare malefici e negatività . Un infuso di Artemisia è  indispensabile per pulire e magnetizzare sfere e specchi magici. Questa pianta è  posta sotto l’ influenza di Marte e della Luna. La divinità corrispondente è  naturalmente Diana-Artemide.

Ricetta: il vino di assenzio favorisce la digestione, si prepara mettendo una manciata di fiori di assenzio in un litro di vino bianco o rosso e si aggiunge un bicchiere di grappa.  Si lascia macerare per una settimana, si filtra e se ne prende un bicchierino dopo i pasti.

BELLADONNA

31 ottobre 2009

bella donna

(Atropa belladonna)

di Loriana mari

Caratteristiche: E’  una pianta perenne, rigida, eretta,  a radice rizomatosa alta fino ad un metro e mezzo, spesso coperta di peluria; ha foglie ovali non dentate, peduncolate. I fiori sono di colore porpora spento, solitari a forma di campana e il frutto è una bacca nera lucida dall’ aspetto invitante e può essere confusa con gli appetitosi frutti del sottobosco come i mirtilli

Habitat: si trova nelle radure dei boschi, negli arbusteti e nei terreni a sub strati calcarei ed è comune in tutta Italia. Cresce nella zona montana e sub montana nei boschi ombrosi delle Alpi e dell’Appennino.

Proprietà : la belladonna contiene tre alcaloidi: l’ atropina, la giusquiamina e la scopolamina, che hanno effetti profondi sul sistema nervoso. L’atropina viene usata per dilatare la pupilla e per preparare medicinali contro la diarrea; inoltre ha proprietà sedative e anestetiche, ma è pericolosissima, perchè è mortale. I sintomi sono condensati in una vecchia filastrocca inglese: caldo come una lepre (febbre), cieco come un pipistrello (dilatazione pupillare e paralisi dell’accomodazione), secco come un osso (blocco della sudorazione e della salivazione), rosso come una barbabietola (congestione del volto e del collo), matto come una gallina (eccitazione psico-motoria e allucinazioni).

Storia, leggenda, mito e magia: è una delle più tipiche piante utilizzatenella magia tradizionale, a causa del suo potente ed immediato effetto, le streghe ai tempi del sabba si spalmavano un unguento sul corpo permettendo alla sostanza di entrare in circolo velocemente e di volare:  chiamato “il sussurro delle streghe” . L’ Atropa belladonna, deve il suo nome ai suoi effetti letali e al suo utilizzo nel campo della cosmetica. Atropa deriva dal nome della parca Atropo alla quale era affidato il compito, nella mitologia greca, di recidere il filo della vita ai comuni mortali. Belladonna poichè nel rinascimento le dame la utilizzavano per migliorare il colorito della pelle del viso e dare lucentezza agli occhi. L’atropina e’ una sostanza allucinogena molto conosciuta in medicina fin dai tempi di Ippocrate nel 400 a.c. e che si trova nelle piante di Belladonna, Mandragora, Stramonio e Giusquiamo. Queste piante hanno un potere sia ipnotico che afrodisiaco e venivano utilizzate per creare allucinazioni, stordimento e eccitazione nei riti per incontrare Satana. L’atropina ha un fascino particolare che ha coinvolto nei secoli streghe, poeti, scrittori, scienziati medici e alchimisti. Affascinato da questa sostanza un professore antropologo tedesco, Will Erich Peuckert, nell’anno 1960, si ritrova tra le mani una ricetta di antica stregoneria tratta dal libro Magia Naturalis di Giambattista e ne viene tentato. Seguendo le istruzioni Peuckert prepara un unguento che utilizza su se stesso. Cade in catalessi e in un sonno profondo di più venti ore durante le quali viene tormentato da orribili visioni: mostri, paesaggi infernali, esseri diabolici e creature sataniche. Lievissima è la differenza tra la quantità che dà allucinazioni e tra quella che dà la morte. Per questo è necessario evitarne l’utilizzo in ogni tipo di situazione.

ACHILLEA MILLEFOLIUM

31 ottobre 2009

achillea

di Loriana Mari

Caratteristiche: pianta: erbacea perenne, con fusto più o meno ramoso, alta 20-80 cm. Le foglie, un poco tomentose, hanno un bel verde gaio e sono talmente incise e seghettate che sembra portino tante minuscole foglioline disposte alternativamente lungo la nervatura della foglia stessa; se strofinate fra le dita emanano un fragrante aroma. Fiori: molto piccoli, riuniti in densi capolini che formano corimbi composti più o meno grandi; fiori ligulati esterni bianchi o rosso-rosa, fiori tubulosi interni giallo-bianchi: osservato singolarmente, ciascun fiore è simile ad una piccola margherita.

Fioritura: marzo-ottobre.

Habitat: fiorisce lungo le strade, le ferrovie, nei terreni incolti, nei coltivi, nelle boscaglie e nei campi lasciati a sodo.

Proprietà : Se le sue proprietà  vulnerarie sono oggi poste in dubbio, l’impiego interno della Millefoglie è stato oggetto di una grande quantità  di lavori, che hanno dimostrato la sua utilità  come amaro-tonico, emostatico, emmenagogo. Per uso esterno, il succo fresco contribuisce a risanare piaghe e ferite; in infuso 2 manciate in 200 cc d’acqua per gargarismi o lavature. Le foglie e gli apici freschi ridotti in pasta arrestano l’emorragia facilitando la cicatrizzazione e una foglia fresca masticata lenisce il mal di denti. Vengono impiegate le sommità  fiorite, la cui raccolta è possibile durante tutta l’estate.

E’ impiegata come uso esterno come topico contro le emorroidi, le ragadi astringente, tonico, anali e quelle delle mammelle, in quanto agisce come astringente, tonico, sedativo e stomachico. (l’infusione deve essere preparata in piccole quantità per il suo rapido annerimento che si accompagna allo svanimento dell’aroma). Due o tre tazze al giorno prima dei pasti evitare l’uso di pentole di ferro, come con tutte le piante ricche di tannino. All’infusione si può aggiungere l’Anice, il Basilico, il Trifoglio fibrino, nei casi di crisi acute. La macerazione delle sommità nel vino, si fa con le medesime proporzioni e viene usata come aperitivo. L’infusione e la macerazione hanno anche una buona influenza sulla circolazione sanguigna. E’ una buona pianta da prato, che si mescola vantaggiosamente con le graminacee, la sua presenza è desiderabile nei prati, in quanto li arricchisce apportando al foraggio benefici effetti sulla salute del bestiame. Un tempo si riteneva che fosse un ottimo rimedio contro la scabbia degli ovini.

Storia, leggenda, mito, magia: in Inghilterra viene chiamata “erba benedetta” per le sue proprietà  curative, in Irlanda era usata per scacciare il malocchio e gli antichi Celti celebravano un vero e proprio rito religioso in occasione della sua raccolta.

E’ considerata un’antenna capace di potenziare la telepatia dell’uomo. Infatti se tenuta tra le mani senza strapparla dal terreno aiuta a farsi ricordare da quelle persone che non si vedono da molto tempo e sono lontane geograficamente.

Il nome deriva dall’ eroe greco Achille che usò questa pianta per curare erimarginare le ferite di Telefo. L’uso della pianta era stato insegnato ad Achille dal medico ateniese Chirone. Dagli steli dell’Achillea si ricavano le 50 bacche vegetali utilizzate nel metodo divinatorio illustrato nel libro delle mutazioni Yi-King. Gli steli venivano lanciati in aria e la loro disposizione, una volta che ricadevano a terra, forniva il responso.

Giugno il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

31 ottobre 2009

san giovanni

 

di Loriana Mari

 

Giugno il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni Tra le antiche tradizioni italiane legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in  primo piano la tradizione della Notte di  S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate. Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità  popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività  di San Giovanni Battista. Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali. Sarà  all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni. Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, operlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità. Molte sono le usanze regionali italiane legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne  l’attesa del sorgere del sole era  propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre  e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava, e nella notte magica avvenivano prodigi: le acque trovavano voci e parole cristalline, le fiamme disegnavano nell’aria scura promesse d’amore e di fortuna, il Male si dissolveva sconfitto dalla stessa forza di cui subiva alla fine la condanna la feroce Erodiade, la regina maledetta che ebbe in dono il capo mozzo del Battista. Nella veglia, tra la notte e l’alba, i fiori bagnati di rugiada brillavano come segnali; allo spuntare del sole si sceglievano e raccoglievano in mazzi per essere benedetti in chiesa dal sacerdote. Bagnarsi nella rugiada o lavarsene almeno gli occhi al ritorno della luce era per i fedeli cristiani un gesto di purificazione prima di partecipare ai riti in chiesa. Non bisogna comunque sottovalutare il sapore magico legato a questa festività , in cui la devozione cristiana verso l’apostolo più amato da Gesù si mescola con una tradizione magica ben più antica, secondo la quale in quel giorno era particolarmente facile formulare pronostici per il futuro. Invece la notte che precedeva il 24 giugno era di rito il ritrovo delle streghe sotto i rami di un grande noce, mentre il giorno di S. Giovanni era il più adatto alla raccolta delle noci ancora immature per preparare il nocino. Dal punto di vista della tradizione erboristica molte sono le erbe solstiziali, erbe benefiche e medicine medievali per curare il corpo ed evitare il malocchio, per proteggere la casa e gli animali; sono dunque le erbe di S. Giovanni. Le erbe raccolte in questa notte hanno un potere particolare, sono in grado di scacciare ogni malattia e tutte le loro proprietà  sono esaltate; c’erano erbe per risolvere questioni amorose, ma c’erano anche le piante dellasaggezza. Piante speciali, rarissime in grado di donare a chi le avesse colte proprio nella notte del santo, chiaroveggenza e invisibilità . In quel caso, chi fosse riuscito a reperire la magica pianta nel bosco, dopo averla colta sarebbe stato inondato da una luce meravigliosa, poi si sarebbe sentito chiamare dalla voce di un proprio caro, un meccanismo attivato dal demonio per evitare di cedere il potere magico della pianta. Solo chi fosse riuscito a resistere alla chiamata, e non si fosse girato, avrebbe acquisito l’incredibile potere. Le più ricercate erano però le piante della buona salute, erbe in grado di donare forza e benessere a chi le avesse assunte. Con alcune di queste veniva fatta un’acqua, che una volta benedetta da un prete, sarebbe stata di buon augurio. Le erbe più note da raccogliere nella notte di S. Giovanni sono: l’iperico, l’artemisia, la verbena, il ribes rosso, il vischio, il sambuco, la mentuccia, l’aglio, la cipolla, la lavanda, il biancospino, la ruta, il corbezzolo e il rosmarino.

 

Le erbe nella tradizione medica europea

31 ottobre 2009

festa dei druidi

di Loriana Mari

Il continente europeo è una terra di antichissime tradizioni mediche, magico-mediche e magiche, di una bellezza affascinante.Di fatto il nostro continente è stato teatro dell’incontro e della commistione di conoscenze e pratiche fitoterapeutiche provenienti dalla Grecia, attraverso Roma, dall’Egitto, dalla Scandinavia e soprattutto dalle popolazioni celtiche, ricche del bagaglio di sapienza dei Druidi. E’ interessante notare che in Egitto, accanto alla medicina ufficiale, esisteva una medicina praticata dalle donne delle erbe, che caratterizzarono la storia antica un po’ dappertutto, sottolineando la connessione tra la donna e la Dea Madre attraverso la natura. Certamente molte di quelle conoscenze erano corrette dal punto di vista erboristico e molte altre lo erano dal punto di vista psicologico: infatti, non possiamo negare ai nostri antichi antenati i riscontri positivi dell’effetto placebo di alcuni dei loro rimedi; inoltre non si può dimenticare la potenza di suggestione dei rituali che spesso accompagnano la terapia.  Il rituale aumenta il bagaglio di fiducia e instilla nel paziente la certezza della guarigione, stimolando efficacemente il sistema immunitario. Sta di fatto che con la medicina delle erbe, con o senza corollari magici, in vigore in Europa dall’inizio della nostra era fino alle soglie del XX sec., il continente si è andato sempre più popolando, il che significa che le nascite e le guarigioni erano più numerose delle morti e pertanto quel tipo di medicina, in una certa misura funzionava. Quando parliamo di erbe della nonna, parliamo delle nostre tradizioni mediche popolari, di grande aiuto e sostegno soprattutto alle popolazioni più povere, che spesso non avevano neanche la possibilità  di chiamare il medico, e soprattutto ricordare tutte quelle donne, esperte di erbe e di pozioni medicinali, le cui ricette venivano tramandate oralmente di madre in figlia: in quelle ricette, la tradizione antica, con i suoi ritmi, i suoi tempi e i suoi  riti, è stata interpretata, per un lungo periodo, come stregoneria, e lepoverette hanno dovuto pagare col rogo il semplice fatto di essere eredi di un’antica cultura che appariva scomoda e incomprensibile nei tempi oscuridell’ inquisizione. Sarebbe incredibilmente lungo elencare le piante che per qualche ragione sono entrate nel corso dei secoli nell’erbario un po’ medico e un po’ magico della nostra tradizione; anzi si può affermare che tutti i vegetali potrebbero trovarvi una collocazione perchè ognuno partecipa, per una certa parte anche piccola, alle concezioni cosmogoniche e naturalistiche degli antichi. I sacerdoti degli antichi popoli celti, i Druidi, costituivano, ai tempi di Cesare, una delle principali classi della società  in Irlanda, Britannia e Gallia. Suddivisi in Druidi vati (o indovini), e bardi, i druidi si occupavano della raccolta del vischio, assistevano ai sacrifici, presiedevano alle cerimonie religiose ed esercitavano anche funzioni giudiziarie, di educatori e di medici. Essi possedevano una profonda conoscenza della natura, soprattutto in campo vegetale: questo li portava a fare uso di molte piante medicinali, tra cui il trifoglio, la verbena, la primula e molte altre. Ma le ricette dei loro infusi non sono giunte fino a noi se non  tramite  una tradizione popolare tramandata oralmente.Molti aspetti delle concezioni dei druidi si ritrovano in molte culture: per esempio la sacralità di varie piante tra cui il tasso, il frassino, il nocciolo, e soprattutto la quercia, considerata come l’albero del bene e del male e quindi della conoscenza.A partire dal 400 a.c. avevano cominciato a giungere in Italia tribù di Barbari celti attraverso le Alpi e, in seguito la penetrazione continuò più o meno sensibilmente su tutto il territorio, e le conoscenze erboristiche di questo popolo si diffusero anche in Italia, sovrapponendosi ed interagendo conquelle locali. I druidi erano abili nel riconoscere le virtà medicinali delle piante, ed erano riusciti ad identificare un insieme di rimedi con cui trattare, con buoni risultati, la maggior parte delle malattie e delle infermità  di quel tempo. Le piante medicinali che utilizzavano, sono state tramandate fino a noi dalla medicina popolare, e sono tuttora presenti allo stato spontaneo sulterritorio.

Partire ragazzi, tornare “ guerrieri “

9 ottobre 2009
loriana mari

di Loriana Mari

“… la foresta è un organismo speciale, fatto di generosità e benevolenza illimitate, che non pretende nulla per il suo sostentamento e che offre con magnanimità i prodotti dell’attività della sua vita; assicura protezione a tutti gli esseri viventi, offrendo una difesa persino al taglialegna che la distrugge.” (563 c. – 483 c. a.C.) Gautama Budda

Raccontare cos’è un CEA o un Aula Verde non è facile, anche se il loro nome fa già  intuirne l’orientamento. Infatti letteralmente CEA significa Centro di Esperienza o di Educazione Ambientale, cioè un luogo dove i ragazzi di tutte le età vivono esperienze nell’ambiente, nella natura, imparano a leggere il territorio, la sua storia, le sue tradizioni e la sua cultura.

Spesso questi centri sono ubicati in luoghi montani e marginali, ma hanno tutti una loro peculiarità che li contraddistingue e li diversifica gli uni dagli altri: un fiume, un lago, un monte, una vecchia ferrovia dismessa o una sorgente.

Il Cea e l’Aula Verde di Cerreto di Spoleto, di cui vi parlo sono gestiti da Legambiente Umbria, uno in convenzione con il Comune di Poggiodomo e l’altro con la Provincia di Perugia. Il Cea “il Sentiero” di Poggiodomo nasce nell’ex scuola del più piccolo comune umbro: tre frazioni e circa sessanta anime, a 975 m slm immerso nella splendida cornice della dorsale del Coscerno-Aspra.

Qui arrivano ragazzi da tutta Italia e di tutte le età, ma soprattutto scuole elementari e medie, per vivere un’esperienza unica e indimenticabile: tre giorni pieni di avventura, di esplorazioni, di giochi, di libertà, di teatro e di fantasia.

L’avventura quasi sempre inizia dal bosco; quando chiediamo ai un ragazzi cos’è un bosco, la risposta, a seconda del luogo in cui vivono, è quasi sempre la stessa: “ … un bosco è un insieme di alberi che attraverso la fotosintesi clorofilliana ci danno ossigeno”. Ma è solo e soltanto questo il bosco? Vedremo!

Lasciamo la strada larga, liscia e asfaltata per prendere quel sentiero ripido, stretto e accidentato che si inerpica sul fianco della montagna e ci porta nel bosco e… come per magia i sogni, gli incubi e le paure più nascoste tornano alla mente, diventano realtà: è nel bosco che Cappuccetto Rosso ha incontrato il lupo! Ed è nel bosco più cupo e profondo che Hansel e Gretel hanno incontrato la strega cattiva! Ed è nel bosco che Pollicino si è perso perchè gli uccellini hanno beccato tutte le briciole! Allora ci si stringe un po’ agli amici, si comincia a mormorare piano, sottovoce, quasi a non farsi sentire; i nostri sensi sono tutti all’erta: i rumori e i suoni sono sconosciuti e paurosi, la luce filtra poco e rende tutto così misterioso, i nostri piedi inciampano, scivolano sulle foglie, sui sassi ricoperti di muschio e sui vecchi tronchi d’albero e accidenti… le nostre mani si aggrappano proprio a quella pianta piena di spine!!!

Guardate gli alberi, sono così alti e tutti così diversi, hanno foglie diverse e corteccia diversa e frutti e bacche diverse: ci sono cespugli, arbusti e alberi, in un disordine spontaneo ma non casuale, ognuno occupa una nicchia ben precisa dalla più piccola foglia all’albero più maestoso e ognuno ricopre un ruolo importante per la vita e la sopravvivenza degli animali e del bosco stesso.

Ascoltate il vento dispettoso insinuarsi tra le foglie e guardate i rami che si curvano sulle nostre teste, sembra quasi che ci vogliono raccontare della magia del bosco e dei suoi abitanti.

Il buio cambia le forme e le dimensioni e tutto diventa pauroso e nuovo, siamo stanchi per la tensione, per la salita e per gli zaini, ma quando sembra che non ce la facciamo più ecco la radura, la nostra meta. La raggiungiamo di corsa e ci sdraiamo sull’erba morbida, con il naso all’insù e la bocca aperta per la meraviglia di vedere così tante stelle. Ma non si può riposare (le stelle le guarderemo più tardi), dobbiamo montare il campo, accendere il fuoco come faceva l’uomo del paleolitico e preparare la cena.

Accendere il fuoco senza fiammiferi non è così facile, riusciremo a cuocere qualcosa? Però è divertente e chi l’avrebbe mai  detto che le patate cotte sotto la cenere sono così buone? E  impastare e cuocere il pane azzimo insieme ai nostri amici e mangiarlo caldo e profumato ci fa sentire, ci fa sentire un gruppo.

E finalmente ci riposiamo a guardare le stelle e ci divertiamo a trovare il Grande Carro, la Stella Polare, Cassiopea e Orione e impariamo a conoscere i miti che si nascondono nei loro nomi e… che stanchezza e che sonno!!

Ma una volta in tenda, rannicchiati nel sacco a pelo, si ha solo voglia di parlare, di raccontarsi tutte le emozioni della giornata passata e quando si cade dal sonno scopriamo con stupore che il silenzio del bosco è pieno di rumori e di suoni: l’allocco per tutta la notte ha lanciato il suo richiamo amoroso, le rane non hanno mai smesso di gracidare e i grilli hanno cantato fino all’alba.

E’ mattino e ci aspetta una nuova grande avventura: scendere lungo il letto asciutto di un fiume e la sua cascata; è una bella prova ma ormai siamo pronti ad affrontarla!!! Abbiamo scoperto che insieme ed aiutandoci riusciamo a superare le nostre paure e le difficoltà che si possono incontrare lungo il nostro cammino.

E alla fine dei tre giorni quando chiediamo cos’è un bosco tutti alzano la mano e gridando rispondono che il bosco: è avventura, paura, divertimento, stare insieme, giocare, è scoprire cose nuove, è un luogo magico, che sarebbe bello viverci e che deve essere compreso per essere protetto.