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Bernardo di Clairvaux e la militia Christi templare

12 aprile 2010

di Christian Grasso

Le origini dell’Ordine templare sono in qualche modo legate al nome di Bernardo di Fontaine (1090-1153), primo abate del monastero cistercense di Clairvaux. Il ruolo da lui giocato nel Concilio di Troyes (13 gennaio 1129), durante il quale viene stilata la Regula latina del primo Ordine religioso-miltare, e la redazione dell’ormai celebre Liber ad milites Templi – De laude novae militiae hanno garantito a Bernardo il

Christian Grasso

 diritto di essere considerato come uno degli artefici principali del successo dei cavalieri templari. E non c’è alcun dubbio che l’influenza di cui allora godeva l’abate di Clairvaux a livello politico ed ecclesiastico sia stata decisiva per la legittimazione storica e religiosa dei templari.

In effetti, Bernardo è stato l’unica personalità a esprimersi apertamente sul valore della missione a cui Ugo di Payens e il gruppo di cavalieri da lui guidato intendevano perseguire. Il magister della fraternitas templare, nata e legittimata in Oriente intorno al 1120, aveva però dovuto faticare non poco prima di trovare un interlocutore capace di dare una risposta concreta ai dubbi che attanagliavano i suoi seguaci e che probabilmente avevano un eco anche nell’opinione pubblica. Il punto delicato della proposta di Ugo di Payens era proprio quella di unire nella nuova figura del miles templare preghiera ed esercizio delle armi. Poteva un cavaliere che professava i voti di povertà, castità e obbedienza, e che nello stesso tempo ambiva a dare un valore spirituale al proprio impegno, combattere ed eventualmente uccidere? Questa, in sintesi, era la domanda che i primi templari si ponevano e ponevano alla società del tempo. Bernardo di Clairvaux non fu il solo ad esprimere la sua opinione in merito. Un certo e misterioso Hugo peccator, la cui identità è per gli stessi storici ancora un enigma (si tratta di Ugo di Payens o del canonico vittorino Ugo di San Vittore ?), e il monaco certosino Guigo I intervennero nella discussione redigendo delle lettere in cui declinavano la questione nell’ottica del combattimento spirituale con cui ogni cristiano è tenuto a confrontarsi per liberarsi dal male e dal peccato che si annida nel proprio intimo. Bernardo di Clairvaux, da parte sua, preferì affrontare il problema nella sua complessità inserendo la sua riflessione sul novus miles in una prospettiva nuova e, per certi aspetti, rivoluzionaria.

Il suo De laude novae militiae è certamente un testo finalizzato a presentare a un ampio pubblico la novità templare, formalmente riconosciuta dal Concilio di Troyes, ma è anche un exhortatorium sermo rivolto agli stessi milites del Tempio invitati a conformarsi ad un nuovo ideale di vita cavalleresca radicalmente diverso da quello rappresentato dalla militia saecularis. Scopo dell’opera di Bernardo non è perciò soltanto quello di legittimare ruolo e funzione della nuova cavalleria, ma anche quello di dotarlo di una precisa e convincente fisionomia spirituale. Di qui la complessità del De laude che per essere compreso va letto nella sua integralità.

Nella prima parte del suo trattato, Bernardo affronta con decisione le questioni per così dire più pratiche e delicate. In questo senso riprende e sviluppa la riflessione agostiniana sul bellum iustum, legando ai principi della bona causa e della recta intentio l’azione militare a cui il templare è chiamato a contribuire in vista della difesa della Terra Santa dall’aggressività dei musulmani. In tale contesto, volto a presentare il ricorso alla forza come legittimo se finalizzato ad un’azione difensiva, Bernardo ricorre a un linguaggio intessuto di riferimenti militari e citazioni bibliche desunte dall’Antico Testamento che si rivelano quasi come un’introduzione alla seconda e molto più lunga parte del De laude. In essa l’abate cistercense lascia ampio spazio all’interpretazione simbolica e allegorica dei nomi dei principali Luoghi Santi. La lettura di queste pagine, tanto suggestive quanto esigenti, è fondamentale se si vuole davvero valutare la prospettiva da cui Bernardo interpreta l’esperienza templare. Quello che, in effetti, egli vuole indicare è il cammino di conversione del novus miles che è invitato a vivere nell’imitazione del Cristo. Del resto, se Bernardo concede ai templari il titolo onorifico di milites Christi, fino ad allora riservato solo ai martiri e ai monaci impegnati nel cammino di perfezione cristiana, è proprio perché li considera come dei cavalieri che hanno assunto un impegno religioso formalizzato dai voti emessi e dall’impegno a vivere nell’obbedienza di una Regula (che egli chiama “disciplina”). Bernardo presenta ai templari la propria visione del monachesimo incentrata sulla carità fraterna, l’obbedienza e la povertà e ad essa incita a conformarsi. La lotta del templare è così, almeno dal suo punto di vista, indirizzata non solo verso i musulmani, ma anche contro i vizi e i peccati che ostruiscono la via verso la santità. Queste due diverse prospettive sono complementari nel De laude, che gioca molto sui due registri di lettura, quello letterale e quello simbolico. Un esempio in tal senso celebre è relativo al neologismo coniato da Bernardo di malecidium, che è appunto l’uccisione del nemico (fisico) in quanto figura del Male.

Molte sono, come si può intuire, le suggestioni e gli spunti che la lettura del De laude è in grado di offrire. Si tratta di un testo che è certamente complesso anche in conseguenza della proposta che nasconde, che è in definitiva quella di unire l’ideale del cavaliere alla vocazione del monaco. Tale complessità non deve tuttavia scoraggiare. Anzi, deve essere una ragione in più per confrontarsi con un testo e un autore capaci di sorprendere e delle volte anche di interrogare.

E per coloro che volessero impegnarsi in tale sfida di lettura e di comprensione ci sia – infine – consentito indicare un piccolo ma prezioso volume edito da un fine conoscitore dell’abate cistercense, Jean Leclercq (San Bernardo e lo spirito cistercense),che in poche ma ricche pagine riesce a rendere più agevole l’incontro con l’autore del De laude novae militiae.

I PRIMI TEMPLARI ALLE CROCIATE

14 marzo 2010

Giuseppe Ligato

di Giuseppe Ligato

Ogni tanto non guasta fare chiarezza nella conoscenza dei templari, insidiata dalla cattiva divulgazione: e senza scomodare le consuete frottole esoteriche, troviamo nei primi tempi della Gerusalemme all’indomani della prima crociata (1099) le condizioni che avrebbero portato, nel giro di una generazione, alla costituzione del Tempio come struttura monastico-militare. La partenza di molti crociati dopo la conquista della Città Santa e la debolezza demografica dei primi insediamenti cristiani e latini, avevano impoverito la difesa delle recenti conquiste e adesso imponevano la formazione di un nucleo permanente di combattenti, ben inquadrati, il cui equipaggiamento e addestramento fossero sottratti all’improvvisazione e alla penuria di risorse che avrebbero caratterizzato pure le crociate successive. Il nemico, infatti, disponeva di riserve pressoché illimitate e non aveva monti e mari da attraversare prima di far affluire rinforzi e rifornimenti sui campi di battaglia.

Fu così che i primi templari, guidati da Ugo de Payns (un monaco mancato, secondo una cronaca siriaca), si votarono intorno al 1120 alla difesa del Santo Sepolcro e dei pellegrini, i quali avevano bisogno di una scorta per l’ultimo tratto del cammino verso la Città Santa attraverso i monti della Giudea. A patrocinare e sostenere questi volontari fu soprattutto il patriarca latino di Gerusalemme, sotto la cui guida si formò una struttura articolata secondo tre specializzazioni: 1) i canonici della basilica del Santo Sepolcro, nelle cui mani si concentravano le copiosissime donazioni dall’intera Cristianità, avrebbero monopolizzato la liturgia e la distribuzione delle elemosine; 2) il primo nucleo del futuro Ordine dell’Ospedale di S. Giovanni, che avrebbe curato le opere assistenziali per i pellegrini; 3) i templari, specializzati nella difesa armata. I canonici del Templum Domini, dal canto loro, fornirono uno spazio nell’area del Tempio (l’attuale Spianata delle Moschee) affinché i templari potessero acquartierarvisi, superando le gravissime difficoltà iniziali segnate, più che dalla povertà, dalla miseria se è vero che questi uomini dovettero inizialmente accontentarsi degli avanzi della mensa degli ospitalieri e coprirsi con abiti usati. Ben presto, i templari mostrarono insofferenza per il controllo ecclesiastico e ottennero dal re di Gerusalemme Baldovino II efficaci pressioni affinché il priore dei canonici del Santo Sepolcro (un uomo del patriarca) rinunciasse a esercitare il proprio controllo su di essi. Lo stesso re assegnò loro il “Tempio di Salomone”, ossia l’ex-moschea di el-Aqsa, quale loro residenza.

Interno della Chiesa di San Bevignate a Perugia

Mancava ancora ai templari una veste giuridica e spirituale, e qui iniziarono i problemi. Il medioevo non amava le novità sociali e fissava una tripartizione dei ceti: le élites aristocratico-militari monopolizzavano la politica e la guerra, il clero pregava e accumulava la grazia divina per il funzionamento di tutto e i lavoratori producevano beni e servizi, una struttura non casualmente simile a quella che abbiamo descritto sopra e di cui i templari avrebbero dovuto costituire l’elemento più prestigioso sul piano militare. Infatti, essi non erano monaci-cavalieri (definizione mai esistita) bensì cavalieri con “qualcosa” dei monaci, in particolare i voti di povertà, castità e obbedienza. Ma per molti templari questa condizione costituiva motivo di perplessità, e buona parte del mondo intorno a loro non mancava di ricordarlo: che razza di uomini erano questi, che mescolavano preghiera e guerra? A parte la Bibbia nella quale i passi adattabili a una giustificazione della guerra non mancavano, restava il problema di una condizione ibrida, estranea alla netta separazione delle funzioni sociali: chi non lavora, può solo pregare o combattere. Ecco dunque qualche dubbio insinuarsi nelle coscienze dei primi volontari, accusati di essere una stranezza antievangelica; non per l’uso delle armi, ma per la fusione nelle stesse persone di violenza e vita consacrata, per quanto laica.

Occorreva pertanto “sdoganare” quella stranezza, e se incaricò lo stesso Ugo de Payns scrivendo ai propri uomini che le vie della vita cristiana sono varie e imprevedibili, che c’era una Cristianità orientale da difendere e che era troppo facile beneficiare di tale difesa criticando chi si impegnava personalmente nella medesima. Ma l’intervento più massiccio fu quello di san Bernardo, abate di Clairvaux e massimo pensatore dell’Europa coeva, un mistico pronto – se non altro per fedeltà al papato che aveva bandito la crociata – a occuparsi della delicata situazione dei templari:  nel proprio trattato Elogio della nuova cavalleria, Bernardo non risolse del tutto il problema dell’ambigua natura quasi-monastica di quei combattenti (al pari di Pietro il Venerabile abate di Cluny, l’altro gigante del monachesimo coevo), e preferì appoggiarsi a un tema già diffuso dal papato: la Terra Santa era la terra di Cristo, ma soprattutto i cavalieri chiamati a prendere l’abito templare erano spesso la feccia della società occidentale, uomini d’armi avidi e vanesi. Per costoro, la dannazione eterna (un pericolo al quale allora potevano prestare attenzione anche i predatori più scatenati) era evitabile solo uccidendo non tanto i nemici musulmani quanto il Male di cui quei  nemici erano portatori. Anche papa Onorio II, al momento di definire nel 1139 la qualifica e il ruolo sociale dei templari, si aggirò tra le varie definizioni senza riuscire a chiamarli “monaci”: per lui erano “guerrieri del Tempio”, una semplice societas, una “istituzione sacra”, una struttura fra il militare e il religioso. Più facile, anche per il pontefice, richiamarsi alla concezione dei templari quali cavalieri finalmente approdati al riscatto della propria anima attraverso la guerra santa.

Più prosaicamente, i templari formarono una struttura che, per quanto benedetta dal papato da cui si riconoscevano dipendenti, richiama più la Legione Straniera che una confraternita di penitenti: erano spesso vassalli ribelli, avventurieri, spiantati che cercavano nella Terra Santa una nuova vita, non solo spirituale. La loro determinazione in guerra era fuori discussione e riconosciuta dagli stessi nemici, per quanto contaminata da una volontà di “politica estera” indipendente da quella del re di Gerusalemme, con una diplomazia separata e con una volontà di dominio che attirò sull’Ordine nuove critiche: troppo ricco e spregiudicato, e persino capace provocare sconfitte con la propria irruenza tattico-strategica. Ma una scelta maggiormente improntata alla vita monastica avrebbe reso tecnicamente inservibile l’Ordine templare, e lo stesso san Bernardo scrisse che di monaci salmodianti era già pieno il mondo; diventare templari poteva essere allora un male minore, e nemmeno inutile.

Insomma, in un mondo che intuiva la necessità di trovare una nuova spiritualità laica si voleva indicare alla cavalleria una forma di vita cristiana di cui possedesse già i requisiti: la perizia bellica, ripulita mediante un voto di tipo monastico.