L’idea delle (meritate) vacanze inizia a farsi sempre più insistente. Quale meta scegliere e soprattutto dove trovare mare cristallino e calette nascoste dove godersi pace e relax? Senza dubbio in Italia c’è l’imbarazzo della scelta quando si tratta di scegliere la meta dei sogni ma, tra le varie destinazioni, la Sicilia resta una delle più gettonate e ambite. (more…)
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Naxos-Tauromenion, emozioni oltre la barriera del tempo
13 ottobre 2011Proprio a ridosso della strada che s’affaccia sulla splendida e famosa spiaggia di Giardini Naxos, (Giaddini in siciliano) frequentata da numerosi turisti, si trova lo scavo di Naxos una delle colonie greche più antiche di Sicilia. Lo scavo, a quanto mi ricordo, è così bene nascosto a sguardi troppo indifferenti al passato da rendere del tutto probabile la permanenza a Giardini per una vacanza e non rendersi neanche conto di trovarsi nei pressi di uno scavo di straordinario rilievo.
Si comincia la visita da un piccolo Antiquarium all’interno di una struttura borbonica a Capo Schisò; da qui è possibile orientarsi sull’area archeologica vera e propria. Mi rendo perfettamente conto a questo punto del bisogno sempre più necessario di spiegare la grande rilevanza che dò a questa località, il motivo affettivo che ad essa mi lega. Ricordo chiaramente che fu uno dei miei
momenti più emozionanti in Sicilia, l’accorgermi all’improvviso, girato l’angolo oltre la splendida e mondana spiaggia di Giardini Naxos , di trovarmi su uno scavo greco arcaico; d’incanto la confusione era cessata, lo spazio si era come dilatato, il silenzio dominava le cose. Mi sembrò di aver superato, senza accorgermene, la barriera del tempo. Nasso fu la prima colonia greca di Sicilia, se vogliamo prestar fede a Tucidide, e numerosi autori tramandano di Teocle calcidese che insieme ad alcuni Ioni di Nasso, l’omonima isola delle Cicladi, avrebbe occupato l’area di Capo Schisò sottraendola probabilmente a degli indigeni Siculi. Il sito dove sarebbe sorta Naxos doveva essere un approdo sicuro ed obbligato per le navi che facevano
rotta verso Occidente dal Mediterraneo Orientale. I primi coloni sarebbero arrivati su una spiaggia dove eressero un tempio ad Apollo Archeghetes il dio di Delo protettore dell’impresa coloniale, nell’anno 754 a. C.: anche questo riferimento a Delo ci riporta all’area delle Cicladi da cui proveniva il nucleo forte dei coloni, considerato anche il nome dato al sito e mutuato probabilmente dalla omonima isola dell’Egeo, Nasso. Dai pochi dati che abbiamo risulta che la polis fu partecipe degli eventi politico economico militari che riguardarono la costa est della Sicilia per tutta l’età arcaica e si trovò spesso in lotta con Siracusa. Le guerre intestine caratteristiche del mondo greco la videro completamente distrutta da Dionigi, il celebre tiranno siracusano, nel 403 a. C.. Gli abitanti superstiti cercarono continuamente di
riprendere possesso della polis fino a che Andromaco, padre del grande storico Timeo, non vide più opportuno abbandonare il sito di Nasso per preferire quello prospiciente di Tauromenion, la moderna Taormina, città gentilmente appoggiata su una collina a 200 m. slm. da cui è possibile uno sguardo meraviglioso sulla costa est della Sicilia fino all’Etna. Il dato d’eccellenza, tra i molti, su cui ci soffermeremo è l’essere stata celebre nell’antichità per il rinomato vino di cui ci testimonia Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia insieme alle monete su cui è spesso raffigurato il dio del vino, Dioniso. Plinio famoso per la sua competenza in materia, prediligeva il vino ‘Taormina bianco’ prodotto con le antiche uve Catarratto bianco*,
Carricante, Grillo, Inzolia e Minella bianca. Tali testimonianze, consentono a questo punto di spendere qualche insufficiente e certamente povera parola sul vino di Sicilia: il vino siciliano
potrebbe essere davvero confuso con un’ambrosia divina, direttamente donata da Dioniso; le uve particolari, i raggi del sole cocente sotto cui i chicchi maturano, il paesaggio caldo e mediterraneo che lo nutre, il suo profumo impregnato di mare, con il retrogusto al sapore di mandorle, gli conferiscono un carattere particolare che lo rendono inimitabile: non riesco mai a decidere dinanzi ad un vino siciliano se mi affascini di più il colore, il profumo o il sapore. La miscela dei tre è, comunque, un cocktail prediletto tra le cose amabili di questo mondo e della Sicilia in particolare.
*Il catarratto, l’uva a bacca bianca più diffusa in Sicilia
NERA, FORTE; FORGIATA DAL FUOCO DELL’ETNA, CATANIA INVINCIBILE
19 settembre 2011di Roberta Capodicasa
A differenza di Siracusa, fondazione dei Dori del Peloponneso, la moderna Catania, in greco, Katane, fu fondazione ionica dei Calcidesi. Visitando la città, il riscontro delle sue origini greche non è così immediato come a Siracusa ma a testimoniarne l’ascendenza greca abbiamo il nome e la prepotente tradizione storica che fa capo a Tucidide nel libro VI della sua opera: Tra i Greci i primi colonizzatori furono i Calcidesi , che fondarono Nasso (Naxos nei pressi di Taormina) … L’anno seguente Archia della famiglia degli Eraclidi, venne da Corinto e fondò Siracusa…Tucle e i Calcidesi, partiti, poi, da Nasso nel quinto anno dalla fondazione di Siracusa, fondarono Leontini, (attuale Lentini presso Siracusa) scacciati i Siculi con una guerra e in seguito Catania (729 a.C.). Della sua storia in questo primo periodo, si conosce davvero poco, solo la notizia dell’origine catanese di Caronda, un celebre legislatore di cui ci parla Aristotele: Caronda di Catania diede leggi ai concittadini e alle altre città calcidesi in Italia e in Sicilia (VI sec.a.C.). Secondo un altro grande storico greco, Plutarco, il suo nome deriverebbe dal termine katane, grattugia a sottolineare le asperità del territorio che sorge sulla lava del vulcano che le svetta alle spalle, od anche dal latino katina (catino, bacinella) per la disposizione delle
colline tutto intorno alla città(!). L’etimologia è, dunque, anch’essa oscura: secondo altre interpretazioni, il nome deriverebbe dall’apposizione del prefisso greco katà- al nome del vulcano Aitnè, vale a dire in greco nei pressi di o appoggiata all’Etna. Questa è per me l’interpretazione più suggestiva dato che corrisponde alla prima impressione che si riceve dalla visita della città, quella di un luogo in strettissima simbiosi con il vulcano. Mi invase gli occhi quel colore scuro, quasi nero, in forte contrasto con l’architettura barocca trionfante dopo il devastante terremoto del 1693, degli edifici cosi antitetico rispetto al
bianco di Siracusa, neri perché realizzati con la pietra lavica dell’Etna che non solo non riuscì mai a travolgere e sommergere Catania ma divenne strumento indispensabile per la sua necessaria sopravvivenza. Le eruzioni d’altra parte non furono mai catastrofiche perché la lava quando fuoriesce dal cratere è molto viscosa e procede lentamente consentendo la fuga: “Iddu” , ( o idda… “a muntagna”) come i catanesi chiamano l’Etna, alto più di 3300 m., protagonista di più di 20 eruzioni solo nel Ventesimo sec., è una colossale montagna che non dorme mai, come un guardiano che veglia sulla città e la protegge dai venti del nord rendendo il suo clima fra i più dolci apprezzati del Mediterraneo, tutto il territorio etneo per circa 60.000 ha di superficie. Il Mongibello, con un altro dei suoi nomi derivato dall’arabo, gebel-monte, ha nel corso degli anni
formato un fertilissimo altipiano lavico plasmato, potremmo dire, con il fuoco. La sua imponenza è tale che, passeggiando alle sue pendici, sembra quasi di respirarne gli effluvi, di sentirne l’intimo respiro, la presenza oscura e imponente, forte fino quasi a forgiare il carattere dei catanesi che lo amano in maniera viscerale. Empedocle, celebre poeta e filosofo della metà del V sec. a.C., poteva dire riguardo i fenomeni vulcanici dell’Etna: Molti fuochi ardono sotto la terra e Lucrezio, il poeta latino grande ammiratore di Empedocle, dirà nel De Rerum Natura a proposito del Vulcano e del suo territorio: Qui c’è l’orrenda Cariddi, qui ci sono i rimbombi sinistri dell’Etna che minaccia di radunare di nuovo le sue irose fiamme e dalle fauci vomitare ancora il fuoco a scagliare ancora dal cielo il bagliore delle fiamme. Questa grande terra sembra degna di ammirazione per tanti aspetti e altrettanto degna che la conoscano molte genti, ricca di molti beni, ammirevole per i molti ingegni.
Senza voler troppo indugiare in una magari inopportuna ed esagerata retorica, la cosa migliore è una verifica diretta possibile a chiunque almeno fino al rifugio Sapienza, mantenendo sempre, però, una prudente e rispettosa condotta nei confronti della natura e senza esagerare come avrebbe fatto il nostro amico Empedocle che, in maniera presuntuosa, si sarebbe gettato nell’ Etna aspirando ad una divinizzazione almeno secondo quanto sostiene Diogene Laerzio! Su tale evento non cessarono di ironizzare autori antichi come Luciano:
“E questo tutto abbrustolito chi è? – Empedocle. – Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell’Etna? – Per un eccesso di malinconia. – No, per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una scarpa e il trucco fu scoperto” (I dialoghi, trad. Mosca; BUR, Rizzoli, 1990).
Nel V secolo la città ebbe vari e importanti contrasti con Siracusa il tiranno della quale, Ierone, nel 476 ne deportò molti degli abitanti e cambiò il nome in Aitna, titolo con cui è celebrata nella Pitica I di Pindaro e nella perduta tragedia di Eschilo Le Etnee. Solo qualche anno più tardi Catania recuperò, però, il suo nome e i suoi antichi abitanti. In seguito la polis vide una serie di continui disastri alternatisi tra guerre ed eruzioni del vulcano che comportarono frequenti distruzioni anche in età romana. Nonostante tutto Catania conservò notevole importanza e ricchezza tanto che il nostro amico Cicerone nelle Verrine la definisce ricchissima: garanzia di tutto il fatto che Verre vide anche qui di rubare qualcosa, una gigantesca e bellissima statua di Demetra. Lasciando Verre al suo processo e ai suoi ladrocini, continuiamo la passeggiata per le vie della città. Inevitabile assaggiare una granita, con innumerevoli scelte di sapori e di profumi, che nelle ore calde del giorno non potrà che essere graditissima e rinfrescante fino ad imbattersi nell’altro elemento della città che mi colpì particolarmente e che risultò anch’esso collegato col vulcano, il simbolo di Catania, l’elefante o U’ Liotru. La statua dell’elefante simbolo di Catania, si trova proprio dinanzi al duomo dedicato a Sant’Agata che, mollemente adagiato al centro della piazza, gli si erge di fronte.
Il nome deriva da una storpiatura del sostantivo Eliodoro il negromante che lo avrebbe forgiato con la lava del vulcano per cavalcarlo. Attorno ad Eliodoro e all’elefante si hanno una serie innumerevole di leggende, tutte con risvolti magici, difficili ovviamente da registrare e che lasceremo dunque in una beata inconsapevolezza, una statua pagana capace di evocare un aspetto magico e oscuro: ancora una volta un simbolo fortemente collegato all’Etna, che, in ogni minimo aspetto, a Catania la fa da padrone.