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L’ascesa dei Templari

3 ottobre 2010

Nello stesso anno (1118), alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione per Dio, religiosi e timorati di Dio, rimettendosi nelle mani del signore patriarca per servire Cristo, professarono di voler vivere perpetuamente secondo le consuetudini delle regole dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni proprietà. Tra loro i primi e i principali furono questi due uomini venerabili, Ugo di Payens e Goffredo di Saint-Omer…” [Guglielmo di Tiro, XII sec.]

Ricostruire i primi anni di vita dell’Ordine dei Templari è molto difficile, in quanto le fonti in possesso degli studiosi sono poche e frammentarie; inoltre la loro veridicità è stata messa in dubbio dal controverso “Documento Rubant”, che afferma che Filippo il Bello, sottraendo i documenti dell’Ordine, avrebbe preso dei falsi.

Il primo testo templare ufficiale è datato 1128, quando il Concilio di Troyes approvò la Regola Templare. Sebbene i Templari avessero indicato il 1119 come l’anno della fondazione dell’Ordine, la maggior parte degli studiosi anticipa il momento storico: sarebbe stato infatti il 1118 l’anno in cui Re Baldovino II mise a disposizione dei Cavalieri di Cristo alcuni locali nei pressi delle rovine del Tempio di Gerusalemme.

I Templari non furono in realtà il primo Ordine religioso nato dopo la vittoriosa crociata in Terra Santa. Goffredo di Buglione, nel 1099, aveva fondato l’Ordine del Santo Sepolcro; poi nacquero l’Ordine di San Giovanni dell’Ospedale (Ospitalieri) e di Santa Maria di Gerusalemme (Teutonici); infine venne l’Ordine del Tempio.

Il primo simbolo dei Templari rappresentava la cupola della Rocca e due cavalieri su un cavallo.

Nel 1120, davanti al patriarca di Gerusalemme Gormond de Picquigny, i Templari pronunciarono i voti di castità, obbedienza e povertà, aggiungendone un quarto: quello della lotta armata contro gli infedeli. Tutti e quattro i voti furono benedetti dalla Chiesa.

In seguito al Concilio di Troyes e alla pubblicazione del “De Laude Novae Militiae” di Bernardo di Chiaravalle, i Cavalieri del Tempio cominciarono la loro inarrestabile ascesa: per oltre due secoli l’Ordine accumulò – grazie a lasciti, donazioni, terre, castelli, casati – ricchezze e potere, tanto da divenire in breve tempo temuto e rispettato.

I Templari usarono l’Occidente come un immenso magazzino, predisponendo in tutta Europa sedi centrali e periferiche di riferimento per le loro attività economiche, militari, politiche.

In Italia il Regno di Sicilia divenne la prima provincia templare (la Puglia in particolare), dove vennero impiantati casali, masserie e grange. Conductores scelti dai Templari praticavano l’agricoltura e gestivano le risorse sul territorio italico.

Navi cariche di carne, cereali, legumi salpavano frequentemente dai porti meridionali dirette verso la Siria, per rifornire le proprietà Templari d’oltremare. Le regioni mediorientali dipendevano sempre di più dall’Occidente a causa della progressiva perdita di terreni a favore dei Saraceni, in una guerra senza quartiere che non conosceva pause (Dopo il 1291 le scorte alimentari via mare si fermarono a Cipro).

Una seconda, importantissima, fonte di reddito per i Templari era costituita dall’attività bancaria. La regola del Tempio voleva che, chiunque entrasse nell’Ordine, doveva donare le proprie terre e ricchezze ad esso per rispettare il voto di povertà. Ma poiché in ogni casa o tempio vi era denaro contante, i Cavalieri cominciarono a prestare delle somme ai pellegrini spagnoli che intendevano viaggiare in Terra Santa (1135). L’attività finanziaria crebbe e assunse un’efficienza tale da coinvolgere interi Stati europei, che chiedevano denaro in prestito o davano mandato ai Templari di gestire la cassa reale (come ad esempio la Francia). Il problema dell’interesse richiesto (che rasentava l’usura) venne abilmente eluso grazie ai tassi di cambio delle valute e grazie ad un accordo che assegnava all’Ordine i diritti della produzione sulle proprietà ipotecate.

La potenza politica e finanziaria dei Templari preoccupò fortemente la Chiesa e i suoi ordini, che cercavano di mantenere il controllo sugli Stati europei. Le stesse famiglie reali temevano i Templari, verso i quali accumulavano debiti ingenti anno dopo anno. I cavalieri del Tempio possedevano ormai terre in tutta Europa e in Medio Oriente, e la loro influenza sulle vicende storiche più importanti era continua.

Dal punto di vista militare l’Ordine non era inferiore, come organizzazione e come abilità, agli eserciti dei più grandi Stati. I Templari, oltre alle battaglie in Terra Santa, parteciparono alla Reconquista di Spagna e Portogallo, guadagnando possedimenti importanti sulla frontiera tra le terre cristiane e quelle musulmane.

Il coraggio in battaglia, il fervore con il quale seguivano le regole del Tempio, la tenacia, l’astuzia, l’abilità con la quale controllavano l’Occidente e combattevano in Oriente, alimentò il mito dei Templari e li rese invincibili agli occhi della popolazione. Ma per la Chiesa e per i sovrani, l’Ordine costituiva ormai solo un pericolo.

Bernardo di Clairvaux e la militia Christi templare

12 aprile 2010

di Christian Grasso

Le origini dell’Ordine templare sono in qualche modo legate al nome di Bernardo di Fontaine (1090-1153), primo abate del monastero cistercense di Clairvaux. Il ruolo da lui giocato nel Concilio di Troyes (13 gennaio 1129), durante il quale viene stilata la Regula latina del primo Ordine religioso-miltare, e la redazione dell’ormai celebre Liber ad milites Templi – De laude novae militiae hanno garantito a Bernardo il

Christian Grasso

 diritto di essere considerato come uno degli artefici principali del successo dei cavalieri templari. E non c’è alcun dubbio che l’influenza di cui allora godeva l’abate di Clairvaux a livello politico ed ecclesiastico sia stata decisiva per la legittimazione storica e religiosa dei templari.

In effetti, Bernardo è stato l’unica personalità a esprimersi apertamente sul valore della missione a cui Ugo di Payens e il gruppo di cavalieri da lui guidato intendevano perseguire. Il magister della fraternitas templare, nata e legittimata in Oriente intorno al 1120, aveva però dovuto faticare non poco prima di trovare un interlocutore capace di dare una risposta concreta ai dubbi che attanagliavano i suoi seguaci e che probabilmente avevano un eco anche nell’opinione pubblica. Il punto delicato della proposta di Ugo di Payens era proprio quella di unire nella nuova figura del miles templare preghiera ed esercizio delle armi. Poteva un cavaliere che professava i voti di povertà, castità e obbedienza, e che nello stesso tempo ambiva a dare un valore spirituale al proprio impegno, combattere ed eventualmente uccidere? Questa, in sintesi, era la domanda che i primi templari si ponevano e ponevano alla società del tempo. Bernardo di Clairvaux non fu il solo ad esprimere la sua opinione in merito. Un certo e misterioso Hugo peccator, la cui identità è per gli stessi storici ancora un enigma (si tratta di Ugo di Payens o del canonico vittorino Ugo di San Vittore ?), e il monaco certosino Guigo I intervennero nella discussione redigendo delle lettere in cui declinavano la questione nell’ottica del combattimento spirituale con cui ogni cristiano è tenuto a confrontarsi per liberarsi dal male e dal peccato che si annida nel proprio intimo. Bernardo di Clairvaux, da parte sua, preferì affrontare il problema nella sua complessità inserendo la sua riflessione sul novus miles in una prospettiva nuova e, per certi aspetti, rivoluzionaria.

Il suo De laude novae militiae è certamente un testo finalizzato a presentare a un ampio pubblico la novità templare, formalmente riconosciuta dal Concilio di Troyes, ma è anche un exhortatorium sermo rivolto agli stessi milites del Tempio invitati a conformarsi ad un nuovo ideale di vita cavalleresca radicalmente diverso da quello rappresentato dalla militia saecularis. Scopo dell’opera di Bernardo non è perciò soltanto quello di legittimare ruolo e funzione della nuova cavalleria, ma anche quello di dotarlo di una precisa e convincente fisionomia spirituale. Di qui la complessità del De laude che per essere compreso va letto nella sua integralità.

Nella prima parte del suo trattato, Bernardo affronta con decisione le questioni per così dire più pratiche e delicate. In questo senso riprende e sviluppa la riflessione agostiniana sul bellum iustum, legando ai principi della bona causa e della recta intentio l’azione militare a cui il templare è chiamato a contribuire in vista della difesa della Terra Santa dall’aggressività dei musulmani. In tale contesto, volto a presentare il ricorso alla forza come legittimo se finalizzato ad un’azione difensiva, Bernardo ricorre a un linguaggio intessuto di riferimenti militari e citazioni bibliche desunte dall’Antico Testamento che si rivelano quasi come un’introduzione alla seconda e molto più lunga parte del De laude. In essa l’abate cistercense lascia ampio spazio all’interpretazione simbolica e allegorica dei nomi dei principali Luoghi Santi. La lettura di queste pagine, tanto suggestive quanto esigenti, è fondamentale se si vuole davvero valutare la prospettiva da cui Bernardo interpreta l’esperienza templare. Quello che, in effetti, egli vuole indicare è il cammino di conversione del novus miles che è invitato a vivere nell’imitazione del Cristo. Del resto, se Bernardo concede ai templari il titolo onorifico di milites Christi, fino ad allora riservato solo ai martiri e ai monaci impegnati nel cammino di perfezione cristiana, è proprio perché li considera come dei cavalieri che hanno assunto un impegno religioso formalizzato dai voti emessi e dall’impegno a vivere nell’obbedienza di una Regula (che egli chiama “disciplina”). Bernardo presenta ai templari la propria visione del monachesimo incentrata sulla carità fraterna, l’obbedienza e la povertà e ad essa incita a conformarsi. La lotta del templare è così, almeno dal suo punto di vista, indirizzata non solo verso i musulmani, ma anche contro i vizi e i peccati che ostruiscono la via verso la santità. Queste due diverse prospettive sono complementari nel De laude, che gioca molto sui due registri di lettura, quello letterale e quello simbolico. Un esempio in tal senso celebre è relativo al neologismo coniato da Bernardo di malecidium, che è appunto l’uccisione del nemico (fisico) in quanto figura del Male.

Molte sono, come si può intuire, le suggestioni e gli spunti che la lettura del De laude è in grado di offrire. Si tratta di un testo che è certamente complesso anche in conseguenza della proposta che nasconde, che è in definitiva quella di unire l’ideale del cavaliere alla vocazione del monaco. Tale complessità non deve tuttavia scoraggiare. Anzi, deve essere una ragione in più per confrontarsi con un testo e un autore capaci di sorprendere e delle volte anche di interrogare.

E per coloro che volessero impegnarsi in tale sfida di lettura e di comprensione ci sia – infine – consentito indicare un piccolo ma prezioso volume edito da un fine conoscitore dell’abate cistercense, Jean Leclercq (San Bernardo e lo spirito cistercense),che in poche ma ricche pagine riesce a rendere più agevole l’incontro con l’autore del De laude novae militiae.