Archive for the ‘ESTERI’ Category

Non lasciamo solo il popolo curdo. Fermiamo l’attacco turco in Siria

21 ottobre 2019

La-guerra-dimenticata-del-Kurdistan-turcoIL CONSIGLIO COMUNALE DI PERUGIA:
Esprime la sua solidarietà al popolo curdo e una ferma condanna dell’aggressione turca nella Siria settentrionale.
E chiede al governo italiano:
Di attivarsi in tutte le sedi, con particolare riferimento all’Unione Europea, al Consiglio
d’Europa e alla NATO, per far si che vengano avviati immediatamente tutti i canali diplomatici per fermare l’attacco turco contro i curdi nel Nord della Siria e creare da subito una “no fly zone” nell’area interessata, che impedisca quindi all’aviazione turca di bombardare l’area in questione, bombardamenti devastanti soprattutto per la popolazione civile. (more…)

Turchia, strage alla marcia pacifista: 86 morti.

10 ottobre 2015

ankaraNella capitale turca era prevista una manifestazione sulla questione curda, per la fine del conflitto tra Stato e separatisti del Pkk. Pare che ad attaccare siano stati due attentatori suicidi. Governo: “Terrorismo”. Demirtas, leader del partito filo-curdo Hdp: “Erdogan ha le mani sporche di sangue, ogni volta che facciamo una manifestazione si verifica un attentato”

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Esplosioni Ankara: Frati assisi, la pace non si tocca. Deprecabile e vile attentato

La pace non si tocca. E’ stato un deprecabile e vile attentato verso uomini indifesi che testimoniavano il valore della pacifica convivenza. Continueremo a difendere tutto ciò che è umano dalle barbarie inumane. San Francesco lenisca il cuore di quanti sono affranti e soffrono per i morti e i feriti di questo sanguinoso attentato“. Ha dichiarato il direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi, padre Enzo Fortunato

LA METROPOLITANA DI GAZA

24 luglio 2014
Maurizio Molinari

Maurizio Molinari

Ieri sera per la prima volta RaiNews24 ha mandato in onda un servizio sulla Guerra a Gaza non fazioso, non il solito servizio di propaganda a favore di Hamas che ci propina od ogni ora Lucia Goracci. Ha mandato in onda una intervista a quello che senza dubbio è il miglior giornalista italiano in Medio Oriente, Maurizio Molinari.

Molinari, con la sua solita pacatezza, ha (more…)

Ungheria: l’anti-fascismo unisce il paese

20 marzo 2013

A Budapest, domenica 2 dicembre migliaia di cittadini hanno dato vita a una manifestazione di protesta contro l’anti-semitismo. Alcuni politici dei gruppi di maggioranza e dell’opposizione vi hanno partecipato per condannare le (more…)

PRINCIPATO DI SEBORGA – “Il Luigino è la moneta più forte al Mondo – Valuta Cambio fissata a 6 Dollari”

21 Maggio 2012

di Alvaro Alimenti

In occasione del secondo Anniversario della elezione di S.A.S. Marcello I Principe di Seborga è stato presentato alla popolazione ed alla stampa il nuovo 1 Luigino, moneta ufficiale con il volto del nuovo Principe. Il conio dell’attuale Luigino è similare alla “passata” moneta nella quale era (more…)

“LA PRIMAVERA ARABA” – GIOVANI E SOCIAL NETWORK

20 gennaio 2012

Viterbo. Sabato 21 gennaio alle ore 11 presso il Gran Caffé Schenardi si parlerà della Primavera Araba, il fenomeno rivoluzionario che coinvolge i Paesi del Medio Oriente del Vicino Oriente e del Nord Africa. Il convegno è organizzato congiuntamente della Giovane Italia di concerto con il G.I.P.P.E. (Giovani Italiani del Partito Popolare Europeo). Ci si concentrerà sul ruolo che hanno giocato, e continuano a giocare, igiovani e i social network come strumento di diffusione e di aggregazione. “Nonostante lo scetticismo e il distacco siano troppo spesso i sentimenti con cui si guarda a questi paesi, le giovani generazioni metropolitane arabe non sono molto diverse da quelle occidentali. E grazie a internet vivono davvero nello stesso mondo globale.” Lo dichiara Antonella Sberna, Coordinatore provinciale della Giovane Italia Viterbo, la quale modererà i lavori. Introdurrà il dibattito il Consigliere Regionale Carlo De Romanis, neo-eletto Vice-Presidente dello IYDU (International Young Democrat Union) al Congresso di Sydney la scorsa settimana, durante il quale i giovani di centro-destra provenitneti da tutto il mondo hanno anche discusso largamente sulla Primavera Araba. Relatori d’eccezione saranno il libanese Bernard Selwan El Khowury, Vice-Direttore dell’osservatorio di Geopolitica del Medio Oriente e l’egiziano Muhammad Abdel – Kader, assistente universitario presso l’università di Helwan che racconteranno le esperienze dei loro Paesi, vissute in prima persona. Ad intervenire nel dibattito saranno Stefano Felician, responsabile della formazione del Coordinamento Romano di Giovane Italia, Matteo Bressan, coordinatore provinciale della Giovane Italia Terni, entrambi esperti di politica internazionale e Alessandro Colorio, coordinatore regionale della Giovane Italia Lazio. Conclude l’incontro il coordinatore nazionale della Giovane Italia, l’On.  Annagrazia Calabria.

 

 

Bombe in Siria e Libano

29 dicembre 2011

di Matteo Bressan

Facciamo un passo indietro e cerchiamo di fare il punto di situazione sui principali avvenimenti che dalla fine di novembre ad oggi hanno interessato due aree strettamente legate tra di loro: Libano e Siria. In Libano il Premier Mikati, di cui Hezbollah fa parte, è riuscito a disinnescare una possibile crisi interna, rifinanziando il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite che indaga sull’omicidio dell’ex Premier Hariri. L’esito di questa scelta era tutt’altro che scontato dato che la compagine di Hezbollah e dei suoi alleati, potendo contare di 18 ministri sui 30 membri del Governo, avrebbe potuto ostacolare con la forza dei numeri il rifinanziamento del Tribunale Internazionale. Un simile scenario avrebbe determinato conseguenze imprevedibili in Libano e avrebbe inevitabilmente attirato l’attenzione degli Stati Uniti e degli Europei su Hezbollah, in un momento, quello della crisi siriana, che vede il Partito di Dio sotto osservazione per il suo sostegno ad Assad. Questa posizione sembra peraltro procurare più danni in termini di coerenza e credibilità che benefici al Partito di Dio agli occhi dei suoi molti sostenitori presenti non solo in Libano ma anche in Siria e in Libia. Non è un mistero infatti che le dichiarazioni di sostegno pronunciate dal Segretario Generale di Hezbollah, Nasrallah, alle rivolte in Egitto e Libia e in generale a tutti i movimenti di protesta della primavera araba, stridano con il silenzio sui massacri in Siria. Per queste ragioni Hezbollah ha ritenuto opportuno ribadire la propria sfiducia nel Tribunale Internazionale senza tuttavia far sprofondare il Libano in una nuova crisi di Governo a quasi un anno dalla caduta del Premier Saad Hariri, volendo in questo modo testimoniare la propria fedeltà al più importante interesse nazionale. Ottenuto l’assenso di Hezbollah, seppure con molti distinguo, Mikati ha potuto erogare ai primi di dicembre ben 32 milioni di dollari alle Nazioni Unite, favorendo così la prosecuzione dei lavori del Tribunale. Pochi giorni dopo, ed esattamente il 9 dicembre, un battaglione francese dell’UNIFIL subiva un attentato senza gravi conseguenze nei pressi della città di Sidone, evento questo che ci porta al dentro della crisi siriana. Poche ore dopo infatti il Ministro degli Esteri francese Alain Juppe’s accusava, annunciando peraltro di non averne le prove, Hezbollah e la Siria di essere responsabili dell’attentato. Anche il leader delle Forze Libanesi, Samir Geagea, ha accusato Hezbollah di essere direttamente o indirettamente responsabile dell’attacco ai militari dell’UNIFIL aggiungendo che di fatto è il Partito di Dio l’unico vero apparato di sicurezza nel Sud del Libano. Geagea ha inoltre precisato come sul luogo dell’attentato i primi a raccogliere prove e ad avviare le indagini siano stati proprio i membri di Hezbollah, poi l’esercito libanese ed infine l’UNIFIL. Risulta difficile per Geagea comprendere come Hezbollah non sia in grado di identificare gli attentatori e al contempo essere capace di smascherare gli agenti della CIA in Libano. A queste domande alle quali forse ad oggi non è possibile dare risposte certe si aggiungono i misteri che circondano il duplice attentato a Damasco dello scorso 23 dicembre, dove sono state colpite da un commando suicida, le sedi dei servizi segreti siriani, causando ben 40 morti. Anche per questo attentato molte sono le piste ma poche sono le certezze. Per il regime e per bocca della tv di stato dietro gli attacchi ci sarebbe al Qaida, per i ribelli invece si è trattato di un attentato preconfezionato da Assad per dimostrare all’opinione pubblica internazionale di essere vittima del terrorismo. Un’altra pista fa pensare al golpe militare anti Assad da parte dei fuoriusciti dell’esercito, opzione questa che non necessariamente andrebbe a rafforzare il fronte dei ribelli. Altre due versioni su questo attentato arrivano invece dal Libano e più precisamente da Hezbollah e dal canale televisivo di riferimento del Partito di Dio, Al – Manar. Per Hezbollah dietro l’attacco infatti ci sarebbero gli Stati Uniti, colpevoli ed esperti in questo genere di attacchi sanguinosi contro i civili. Un’altra pista poco seguita è invece quella diffusa da Al – Manar, che il 24 dicembre ha riportato da un sito internet dei Fratelli Musulmani di Siria, la rivendicazione dell’attentato. Poche ore dopo però gli stessi Fratelli Musulmani della Siria hanno negato il loro coinvolgimento ed hanno accusato il regime di Assad di diffondere, mediante siti web falsi, notizie tese a screditare il loro movimento.

Arriviamo quindi a ieri mattina, quando un’esplosione ha distrutto, senza provocare vittime, un ristorante a Tiro in Libano. L’esplosione è avvenuta alle 5.00 ora locale per mezzo di un esplosivo di 2 chilogrammi posto nella parete esterna del ristorante “Tyros”. Dopo il sopralluogo della Quinta Brigata dell’esercito libanese, gli esperti hanno posto un perimetro di sicurezza intorno alla zona, bloccando alcuni ingressi nella città. Secondo quanto appreso dalla emittente radiofonica “la voce del Libano” sembrerebbe che dietro all’attentato ci possa essere la regia di un partito estremista intenzionato ad impedire l’annunciata festa di Capodanno al ristorante. Il proprietario del ristorante, Arnaout Zuhair, intervistato dall’emittente libanese LBC ha raccontato che 10 giorni prima dell’attentato di ieri mattina ignoti avevano distrutto il manifesto pubblicitario che annunciava la festa di Capodanno presso il “Tyros”. Sempre il proprietario ha poi affermato che i danni saranno riparati rapidamente e che la festa di Capodanno con l’offerta dell’alcool si svolgerà regolarmente. Arnaout ha poi denunciato che ci sarebbero alcuni intenzionati ad impedire i festeggiamenti del Capodanno a Tiro, operazione questa che danneggerebbe gravemente l’attività turistica della cittadina costiera. È significativo inoltre che il gestore di un altro ristorante vicino al “Tyros” abbia deciso di annullare i festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno. A questa testimonianza si aggiunge quella di un altro gestore che afferma di aver ricevuto minacce telefoniche che suggerivano di non organizzare nessuna festa per il veglione di capodanno. Sembra inoltre che alcuni ristoranti e locali a Tiro abbiano affisso dei cartelloni in cui si chiedeva scusa per la somministrazione dell’alcool. Va ricordato che la città di Tiro è una della poche città del Sud del Libano dove è consentita la somministrazione di bevande alcooliche. Lo scorso novembre un’ esplosione ha distrutto un locale, sito in un quartiere sciita di Tiro, che vendeva bevande alcooliche. Alcuni osservatori già dallo scorso agosto avevano denunciato che nella città di Nabatieh, capoluogo dell’omonimo governatorato, il sindaco appartenente al Partito di Dio, avrebbe vietato la vendita di alcoolici e che, l’unico commerciante ad essersi rifiutato di applicare la disposizione, si è ritrovato il negozio distrutto.

Assalto all’ambasciata britannica e razzi contro Israele dal Sud del Libano: due messaggi mirati

1 dicembre 2011

di Matteo Bressan

Il protrarsi della crisi siriana assieme alla corsa al nucleare da parte dell’Iran sta producendo un’accelerazione della tensione senza precedenti, nel già complesso scenario mediorientale. Partendo dagli attentati dello scorso maggio al contingente italiano dell’UNIFIL, seguiti poi da quelli al contingente francese, si è assistito ad una pericolosa concatenazione di eventi riconducibili in qualche modo a quanto avveniva in Siria e Iran. All’epoca dell’attentato all’UNIFIL la comunità internazionale si apprestava ad inasprire le sanzioni contro il regime di Assad e molti hanno intravisto un possibile collegamento tra i due eventi. Più complesso da analizzare risulta invece il lancio di alcuni razzi contro Israele, partiti dal Sud del Libano due notti fa. Nonostante che l’attacco sia stato rivendicato da un gruppo islamico ritenuto vicino ad Al Qaida, le Brigate di Abdallah Azzam, molti sostengono che sia quasi impossibile compiere simili azioni nel Sud del Libano senza il consenso di Hezbollah. Cercando però di trovare una spiegazione a questa azione militare si possono provare a seguire due strade: una di politica interna e una di politica internazionale. Proprio ieri infatti il Premier libanese Mikati, sorprendendo molti osservatori, ha annunciato di aver versato i finanziamenti necessari al funzionamento del Tribunale Speciale che indaga sull’omicidio Hariri. Hezbollah infatti, che sostiene il Governo Mikati, aveva manifestato a più riprese la propria contrarietà al sostegno economico del Tribunale, facendo presagire una possibile crisi di Governo. Il lancio di razzi quindi potrebbe rappresentare un avvertimento non solo per ricordare a tutti i partiti libanesi i rapporti di forza all’interno del paese dei cedri, ma anche una prova di forza nei confronti dello stesso Mikati. Anche i razzi utilizzati questa volta, non più i Katiuscia ma i Grad, potrebbero essere considerati più come un avvertimento ad Israele, che non una vera e propria provocazione. Un messaggio per ricordare, al nemico storico di Hezbollah, che l’arsenale questa volta, rispetto al 2006, annovera razzi ben più potenti dei Katiuscia. Un messaggio quindi, più che una vera provocazione magari tesa a scatenare un conflitto che non gioverebbe ad Hezbollah e che esporrebbe l’intero Libano ad una ben più consistente reazione israeliana rispetto a quella del 2006. Negli ultimi giorni però altri messaggi sono arrivati e ben più inquietanti. In Iran, da quello che viene riferito da dissidenti iraniani, dietro all’assalto all’ambasciata britannica ci sarebbe dell’altro. Il regime infatti, nonostante l’inerzia della comunità internazionale, starebbe vivendo una fase di lenta ma pericolosissima implosione. Addirittura si ipotizza che l’assalto all’ambasciata britannica sia stato architettato per far passare in secondo piano l’esplosione che ha interessato gli impianti di arricchimento dell’uranio nella città di Isfahan. Il Times, ha diffuso delle immagini che testimonierebbero, la distruzione di alcuni edifici ma ad oggi non risulterebbero registrate fughe di radioattività né è possibile provare un coinvolgimento della CIA o del MOSSAD nei fatti accaduti. In questo scenario, con la Siria che minaccia ritorsioni contro l’occidente e l’Iran che promette di scatenare Hamas ed Hezbollah in caso di attacco israeliano, l’Italia si appresta a riprendere il comando della missione UNIFIL dal prossimo gennaio. Il contesto però è notevolmente cambiato rispetto ai tempi del Generale Claudio Graziano e alcune dichiarazioni provenienti dall’Iran meritano la massima attenzione, se non addirittura un ripensamento della missione UNIFIL. La scorsa settimana infatti Yahya Rahim Safavi, Consigliere militare della Guida suprema e già comandante delle guardie rivoluzionarie iraniane, ha fatto riferimento ad una esercitazione congiunta tra la Nato e Israele, svoltasi a largo delle coste della Sardegna, con il contributo dell’Italia. C’è da chiedersi a questo punto, se Hezbollah, che in passato aveva espresso importanti apprezzamenti sul contingente italiano, guarderà con maggiore diffidenza il nuovo comando italiano.

 

 

La primavera araba in Egitto si tinge di sangue

22 novembre 2011

di Matteo Bressan

Il sogno dei ragazzi che sono stati protagonisti della protesta scoppiata lo scorso gennaio si sta scontrando da tre giorni con la dura repressione della polizia. I manifestanti, riuniti dallo scorso venerdì a piazza Tahrir, temono il protrarsi dell’esecutivo militare, chiedono le dimissioni dei vertici militari e il trasferimento del potere ad un esecutivo civile. A differenza però delle rivolte dello scorso luglio questa volta i manifestanti non hanno il sostegno dell’esercito ed il bilancio di ben 40 morti e più di 1.800 feriti, con il fronte della protesta in espansione anche ad Alessandria e Suez apre uno scenario inquietante e in contrasto con le speranze che avevano accompagnato la fine del regime di Mubarak. Piazza Tahrir, il luogo simbolo della primavera araba, ieri mattina ospitava una serie di ospedali da campo improvvisati dai manifestanti, come testimoniano le foto ricevute attraverso il videofonino da una manifestante egiziana. Nel pomeriggio di ieri si è appreso che la piazza si è andata riempiendo sempre di più nonostante il massiccio uso di lacrimogeni e di proiettili di gomma. Secondo il Ministro dell’Interno egiziano, Sami Sidhom, ad alimentare le proteste non sarebbero i giovani attivisti, ma una serie di delinquenti comuni infiltrati tra i manifestanti. Questi ultimi però hanno accusato l’esecutivo militare di influenzare i media, negando il coinvolgimento dei presunti infiltrati. Nella notte il Governo egiziano ha presentato le sue dimissioni, ma il vero problema resta l’esecutivo militare.

Al Jazeera è la Voce dei Fratelli Musulmani

25 ottobre 2011

Magdi Cristiano Allam

Al Jazeera coordina la campagna mediatica dei Fratelli Musulmani nel mondo Carissimi Protagonisti e Amici di Io amo l’Italia (Ali), mi sono risvegliato questa mattina a Strasburgo dove partecipo alla sessione plenaria del Parlamento Europeo vedendo il telegiornale di Al Jazeera, la più nota televisione satellitare araba. Dalla prima all’ultima immagine è un’esaltazione e un’apologia del martirio del popolo, della rivoluzione contro i tiranni, dell’islam come soluzione. Le immagini che si susseguono mostrano morti e feriti, esercito e polizia che sparano sulla folla, imponenti manifestazioni popolari contro il regime. La parola d’ordine è: democrazia ed elezioni. Le barbe lunghe che si rassomigliano in Siria, Giordania, Tunisia, Egitto e Pakistan invocano a viva voce democrazia ed elezioni. Il conduttore televisivo non racconta ma partecipa, non descrive ma istiga, non mira a comunicare bensì a mobilitare. Così come dal 2001 Al Jazeera è stata la Voce di Bin Laden e di Al Qaeda, oggi Al Jazeera è la Voce dei Fratelli Musulmani. Nel nome della riscossa dei popoli, dell’islam e della democrazia!

Amnesty denuncia: Torture nella Libia dei “democratici”

25 ottobre 2011

di Gennaro Esposito

Il Consiglio Nazionale di Transizione è ormai vicinissimo ad ottenere il controllo totale della Libia, con le sue milizie impegnate nell’ultima e decisiva battaglia per la conquista di Sirte, città natale del Colonnello Gheddafi. Ma le premesse di quella che dovrebbe essere la Libia del futuro non sono delle migliori.
Se infatti il mondo intero auspicava un cambio di regime in Libia (tanto che le potenze occidentali sono intervenute militarmente a sostegno dei ribelli), nessuno poteva immaginare che l’alternativa potesse essere un altrettanto cruento regime. E’ quanto si evince dalla denuncia di Amnesty International che ha reso noto di essere a conoscenza di preoccupanti abusi (incluso il ricorso alla tortura) da parte proprio degli uomini del Cnt ai danni di 2500 detenuti vittime di arresti arbitrari compiuti in questi mesi di guerra civile.
Una notizia che getta una lunga ombra sulla bontà dell’alternativa di governo sponsorizzata dall’Occidente e che rischia di far rimpiangere, alla popolazione locale, il regime abbattuto del Colonnello Gheddafi. Il rapporto di Amnesty International, dal titolo emblematico “Abusi detentivi macchiano la nuova Libia”, si basa su un’indagine condotta dalla stessa ONG britannica tra il 18 agosto (alla vigilia della caduta di Tripoli) e il 21 settembre in 11 penitenziari dell’hinterland di Tripoli, Zawiya e Misurata conducendo a scoperte raccapriccianti.
L’indagine avrebbe infatti fatto emergere un vero e proprio sistema di torture ed abusi ai danni dei sospetti collaborazionisti del regime di Gheddafi tanto che in alcuni casi, si legge sul rapporto, “vi è una chiara evidenza del ricorso alla tortura per estorcere confessioni o semplicemente per infliggere una punizione”.
Hassiba Hadj Sahraoui, vice-direttrice di Amnesty per il Medio Oriente ed il Nord Africa, ha affermato che “le autorità transitorie stanno certamente affrontando numerose sfide, ma se non si impegnano a rompere chiaramente con il passato, manderanno all’esterno il messaggio che maltrattare i detenuti sia una pratica tollerata nella nuova Libia” così come in precedenza, considerando che arresti arbitrari e torture erano tratti tipici del regime di Gheddafi.
Il rapporto di Amnesty International, dunque, solleva numerose preoccupazioni sul futuro della Libia dal punto di vista della repressione del dissenso. Il rischio concreto è infatti che, almeno da questo punto di vista, il rovesciamento del regime di Gheddafi non porti alcuna novità rendendo fallimentare l’ennesimo tentativo di esportazione della democrazia.

Fonte: L’OPINIONE DELLE LIBERTA’

L’ultima tenda del Colonnello

21 ottobre 2011

Razionalmente questo articolo si sarebbe dovuto scrivere molto tempo fa e forse dire certe cose oggi è sin troppo facile se non ipocrita. Oggi tutti vogliono voltare pagina in Libia e anche chi tra i leader dell’opposizione libica era fino a qualche mese fa parte integrante del regime di Gheddafi ora si appresta a rappresentare il nuovo. Termina così, dopo 8 mesi di sanguinosa guerra, l’ultima resistenza del Colonnello, calpestato e sfregiato come altri dittatori della storia, accomunati dall’esser trucidati dalle stesse mani di chi per anni ha applaudito il Rais. Molti sono stati i Governi che a vario titolo hanno consentito al Rais di godere di una rispettabilità internazionale al di sopra dei suoi reali o presunti meriti. Il petrolio prima e la paura di Al Qaida poi hanno reso indispensabile il dialogo con il Colonnello, sempre più leader autoreferenziale di un Mediterraneo in fibrillazione.
Chi era Gheddafi? Un rivoluzionario, un anticolonialista, un riformatore, un brutale dittatore, ma anche un guerrafondaio che ha rifornito le milizie palestinesi in contrasto con Arafat e foraggiato gli eserciti privati che si sono contrapposti in Libano negli anni della guerra civile, un terrorista e infine l’argine del fondamentalismo islamico in Nord Africa. I Governi europei hanno fatto a gara per avere buoni rapporti con il Rais e se tanto rumore hanno provocato i caroselli e le pagliacciate messe in scena nella sua ultima visita ufficiale in Italia ben più grave è stato il silenzio sulla liberazione da parte della autorità scozzesi di Abdelbaset al Megrahi, unico condannato per l’attentato di Lockerbie, dove morirono ben 259 persone.
Il rapporto tra l’Italia e la Libia di Gheddafi è stato contraddistinto da un cinico mix di propaganda interna contro il passato coloniale italiano controbilanciato da ottime relazioni bilaterali. All’indomani della presa del potere di Gheddafi nel 1969 che sancì l’esproprio e la cacciata, senza spargimento di sangue, dei 12.000 italiani e della comunità ebraica presente in Libia, i governi italiani sono stati costretti a più riprese a dover mercanteggiare la propria sicurezza e le proprie forniture energetiche con il dittatore libico, a scapito della dignità di quelle famiglie italiane che espulse dalla Libia non avevano nulla di che vergognarsi.
Se è vero che l’Italia di Andreotti e Craxi salvò il rais dai bombardamenti americani del 1986 è altrettanto vero che sia i Governi di centro sinistra che di centro destra della seconda repubblica hanno concesso molto, forse sin troppo, per cancellare le violenze del passato coloniale indistintamente compiute dall’Italia di Giolitti così come da quella di Mussolini.
Gheddafi ora non c’è più e il conto che l’Italia ha pagato alla Libia prima di Re Idris e poi del Colonnello è stato saldato da tutti i Governi del dopoguerra in ragione di evidenti interessi di politica estera ed economica. Lo scenario è oggi cambiato e l’Italia è chiamata a ridefinire i propri rapporti con la vicina Libia lasciando alle spalle qualsiasi forma di sudditanza psicologica inconcepibile per un paese che vuole avere un ruolo dignitoso nel Mediterraneo.

Matteo Bressan

I Cristiani nel mondo sono stranieri in patria?

11 ottobre 2011

di Costanza Bondi

I cristiani nel mondo sono sempre più agnelli in mezzo ai lupi: la strage per la protesta di migliaia di cristiani copti scesi in piazza ieri al Cairo dopo l’ incendio dell’ ennesima chiesa ne è la conferma. La situazione è pressoché drammatica: su 100 persone che nel mondo perdono la vita a causa dell’odio religioso, 75 sono cristiani. Il citato esempio degli accadimenti del Cairo è esemplare di come gli attacchi ai cristiani siano una reazione all’occidente di cui i fedeli locali vengono percepiti come un’appendice, nonostante tali comunità religiose siano preesistenti allo stesso islam. Da più parti si solleveranno ora le eco dei filo-arabi tout court che, pronti e lesti, porteranno dalla loro il revanchismo anticrociate di cui gli islamici possano forgiarsi in proposito. A costoro (già) rispondo, tirando in ballo una religione ancora più antica – la mitologia greca – che prima di tutto non si tratta di nemesi storica per cui i figli debbano pagare le colpe dei padri. Padri che nel caso specifico sarebbero addirittura i trisavoli dei quadrisavoli dei quintisavoli… e così all’infinito. Secondariamente, trovo esecrabile ogni conquista (sociale, politica, economica) che si nasconda dietro parvenze religiose. Per antonomasia, le guerre di religione in Francia del 1500 insegnano. Tornando alle crociate, è da considerarsi inoltre che si trattava di altri tempi e di altri eventi che definirei “non maturi” a cui nel corso della storia è seguita un’evoluzione morale all’interno del cristianesimo tutto, che ha posto le basi dell’eticità odierna del pensiero in generale. I 600 e passa anni che discostano per nascita le due religioni a riguardo, potrebbero servire per un’equiparazione degli intenti, solo ed esclusivamente se si partisse dalle stesse basi di tolleranza e di rispetto – proprie della religione cristiana – e non da quelle di supremazia o di conquista del presunto infedele, come predica la jihad. Attualmente il Cristianesimo è la religione più diffusa al mondo, con circa 2,1 miliardi di fedeli (1 miliardo di cattolici, 500 milioni di protestanti, 470 milioni di evangelici pentecostali , 240 milioni di ortodossi, e 275 milioni d’altri), davanti all’Islam, tra 900 milioni ed 1,4 miliardi, e all’Induismo, tra 850 milioni e un miliardo – dati forniti dal CESNUR – Nonostante ciò i cristiani rimangono minoranza in svariati luoghi del mondo subendo su loro stessi la conseguenza di tale condizione. Concludo con un pensiero a me da sempre caro e del quale nel mio piccolo mi sono sempre fatta portavoce: una società che non tutela le minoranze, di qualunque tipo esse siano, è minorata e minata di per sé.

INTERVISTA A HELMUT KOHL: “DOBBIAMO RIPORTARE LA FIDUCIA IN EUROPA” – PARTE SECONDA

21 settembre 2011

IP:
Alcuni osservatori affermano di aver individuato recentemente una tendenza

Helmut Kohl

tedesca a mettersi “fuori dalla Unione europea” e il pensiero di entrare in “una globalizzazione solitaria”. Siamo di fronte ad una nuova “Großdeutschland”?

Kohl:
Non credo proprio che in Germania qualcuno con delle responsabilità abbia l’intenzione di seguire questa idea. Uno sguardo alla nostra storia ci ricorda che non possiamo permetterci un’azione solitaria della Germania.

IP:
Già nel 2010 sul giornale tedesco Bild, Lei aveva avvertito: “Il nazionalismo nascente e la crescente ostentazione nazionalistica ostacolano l’unificazione europea”. A chi è rivolta in particolare questa affermazione?

Kohl:
Ai tedeschi, anche se con questa affermazione avevo in mente anche altri. Purtroppo è vero, soprattutto i tedeschi devono riconoscersi in questo avvertimento. Tenendo in considerazione la nostra eredità storica e il suo significato, abbiamo una responsabilità particolare.

IP:
Rispetto alla crisi in Grecia, alla “American Academy” a Berlino, Lei ha di recente affermato: “Seguiremo il nostro percorso anche insieme alla Grecia… per quanto il cammino possa essere difficile” In seguito, nella Sueddeutsche Zeitung Lei è stato definito come l’“europeo di cuore” che avrebbe reagito più generosamente rispetto alla “europea di testa” Angela Merkel, se si fosse trovato ad affrontare i problemi della Grecia nella Sua epoca. Si può fare questa distinzione? In Germania esiste ancora un numero sufficiente di europei e politici appassionati?

Kohl:

Ritengo la distinzione tra “europeo di cuore” e “europeo di testa” fondamentalmente sbagliata, anzi pericolosamente ingannevole. Come capo di stato di un paese non si può semplicemente prendere decisioni con il cuore o con la testa: ovviamente bisogna decidere con entrambi. Da un lato è necessario avere passione e voglia di fare per svolgere i propri compiti perché altrimenti nessuno sarebbe in grado di affrontare la carica istituzionale, nella la sua immensa responsabilità e con l’enorme dispendio di tempo che essa richiede. D’altro lato non é possibile portare avanti le proprie idee, se in certi momenti non si è in grado di mostrarsi risoluti. Senza queste abilità semplicemente non si è adatti per questo lavoro. L’Europa era e rimarrà qualcosa che mi sta a cuore, ma ciò non contraddice e anzi completa l’idea che l’Europa sia prevalentemente un prodotto della ragione. In altre parole: l’Europa non é un’utopia fine a se stessa di alcuni ingenui sognatori, ma rimane l’unica alternativa possibile, soprattutto per la Germania. La situazione della Grecia é uno splendido esempio di che cosa questo significhi in concreto. Gli errori con la Grecia sono stati fatti nel passato; in questo momento di crisi l’Unione europea e i membri della Zona Euro non possono porsi il dubbio se essere o meno solidali con la Grecia, perché la Grecia fa parte di entrambe. Del resto è anche vero che durante la mia carica di cancelliere, la Germania non avrebbe mai approvato l’ammissione della Grecia nella Zona Euro a fronte di drastiche riforme strutturali nel paese, perché ad un esame attento la situazione effettiva della Grecia non sarebbe certo potuta rimanere nascosta. So di cosa parlo , perché vi ho preso parte. Già durante le trattative per l’introduzione dell’Euro, i greci facevano una forte pressione su di noi per essere parte dell’Eurolandia sin dall’inizio; ciononostante io, insieme al ministro delle finanze Theo Waigl, ho sempre sostenuto ed espresso con chiarezza le ragioni per cui respingevo la loro entrata. Purtroppo però, con il nuovo governo nel 1998, la linea dura della Germania si è ammorbidita. Con me alla guida del paese, la Germania non avrebbe violato il PCS. Ritengo che queste due decisioni siano il motivo principale che ci ha costretto ad assistere agli errori che ora giustamente critichiamo nell’Eurolandia e nei suoi singoli stati membri,. Nel nostro paese si dimentica spesso che dobbiamo queste due decisioni alla coalizione tra SPD e Die Grünen ( socialdemocratici e verdi). Vorrei sottolineare che queste decisioni non sono state generate da necessità della Realpolitik ma si è trattato semplicemente di un atteggiamento irresponsabile. Le conseguenze lo dimostrano chiaramente. D’altra parte è vero che gli errori fatti non possono essere cancellati, che lamentarsi non aiuta e mettere in dubbio la stabilità dell’Euro aiuta ancora meno. La buona notizia è che possiamo correggere gli errori e risolvere i problemi. Sarebbe un errore cadere nell’illusione che si tratti unicamente di una questione di soldi, o come la propone Lei, una questione di generosità. Nella crisi l’Europa ha bisogno di un attivismo determinato e un pacchetto di misure lungimiranti, scelte con saggezza e senza ideologie. Solo così potremo rimettere l’Europa sulla retta via e garantirle un futuro sicuro. Pagheremo senz’altro un prezzo più alto di quanto avremmo fatto senza aver preso decisioni errate, ma non abbiamo altra scelta se non vogliamo far crollare l’Unione Europea. Le misure necessarie prevedono tra l’altro che gli stati membri in difficoltà come la Grecia ricevano il sostegno della comunità, anche se questi dovranno prima fare da soli i loro compiti a casa.. Una comunità come l’UE e l’Unione monetaria potrà funzionare nel lungo periodo solo se ognuno si prenderà la proprie responsabilità. Al momento vedo purtroppo qualche mancanza o – in altre parole – vedo pochi europei convinti. Ma questo non contraddice il fatto che tra i nostri politici europei ci sia sufficiente passione: dobbiamo semplicemente permetterle di emergere.

IP:
“Riprenderei tutte le decisioni importanti fatte.”, ha concluso nel 2010. Vale anche per l’Unione monetaria dove gli errori di costruzione stanno diventando palesi?

Kohl:
Questa conclusione è valida guardando indietro a tutta la mia vita, e sopratutto per l’Unione monetaria, così come per tutte le decisioni riguardanti l’Europa che sono state prese durante il mio incarico di cancelliere. Anche il dibattito attuale non cambia nulla sul mio percorso. Non dimentichiamo che l’Europa si è sviluppata sempre a piccoli passi. Non è mai stato facile andare avanti con l’UE e non l’abbiamo mai presa alla leggera. Le trattative tra gli stati membri dell’UE, e precedentemente tra gli stati membri CEE, spesso duravano fino al sorgere del sole. Per l’Europa unita abbiamo combattuto una lotta dura, chiedendoci cosa ci portasse avanti, fino a quale punto potessimo andare avanti senza sovraccaricare i singoli e fino a quale punto ci avrebbero seguito tutti. Si può criticare questo metodo, però alla fine bisogna accettarlo, e diventa più facile accettarlo se la solidarietà tra i membri aumenta. É un’esperienza che ho fatto spesso. Naturalmente ogni tanto avrei desiderato prendere decisioni più estese, sopratutto negli anni novanta in connessione all’Euro e all’unione politica. Ma se in quel periodo avessi insistito su tutto ciò che desideravo fare e consideravo necessario sul lungo periodo, non avremmo mai fatto quel passo in avanti con l’Europa che infine abbiamo fatto. Per esempio sono convintissimo che ancora oggi non avremmo l’Euro. A questo scopo ho fatto dei tagli che ritenevo e ritengo ancora giustificabili. Considero l’espressione “errore di costruzione” del tutto sbagliata. In questo ambito. È vero che non abbiamo raggiunto gli obiettivi come avremmo desiderato. Però abbiamo fatto il possibile e la direzione era giusta, questo è ciò che conta. Devo ammetterlo, il fatto che dopo il mio mandato l’UE senza una vera ragione sia tornata indietro su questioni generali che avevamo già risolto – come il patto di stabilità e la Grecia – e che non riesca a fare progressi, per giunta sotto la guida franco-tedesca, ha superato la mia immaginazione, e continua a farlo.

In breve: abbiamo raggiunto insieme gli obiettivi che potevamo raggiungere secondo le circostanze del momento, e anche osservando dalla prospettiva odierna si può giudicare come un’ottima prestazione.

IP:
Nel autunno dell’anno scorso si è distanziato chiaramente dall’abrogazione del servizio militare obbligatorio: “In base a quello che vedo e sento, non mi pare che il mondo sia cambiato in modo tale da non poter rendere possibile il servizio militare obbligatorio.” L’abrogazione è stato un errore?

Kohl:
Sì.

IP:
La rivoluzione del mondo arabo rappresenta la più grande sfida strategica per l’Europa, è paragonabile alla caduta del muro nel 1989? Quale strategia consiglia Lei per l’Europa?

Kohl:
Attualmente la più grande sfida per l’Europa è l’Europa stessa. L’Europa deve rendersi conto di avere una responsabilità per il resto del mondo e comprendere quale questa sia. Dobbiamo assolutamente smettere di perderci nelle piccolezze e invece ricominciare a parlare come una unica voce. In nessun modo voglio negare la portata delle sfide della crisi finanziaria ed economica,le sfide sono immense – ma ancora una volta – anche nel passato abbiamo avute grandi sfide. Penso alla caduta del Muro nel 1998, a cui si Lei fa riferimento. Se in quel periodo avessimo reagito così debolmente, come alcuni fanno oggi, usando regolarmente superlativi per descrivere la situazione, sicuramente non avremmo mai raggiunto la riunificazione tedesca nel 1990. Le sfide esistono per essere affrontate e per essere risolte con coraggio e voglia di fare. Questo valeva nel passato ed è valido ancora oggi, senza differenze. Adesso è necessario uscire dalla crisi con una linea chiara e mettere l’Europa in grado di reagire su altri temi, come per esempio la rivoluzione del mondo arabo, da Lei prima menzionata. Come ho già detto prima, non è la sfida più importante per l’Europa, ma si tratta comunque di una grande sfida strategica. Il nostro compito sarà sostenere questi paesi nel loro percorso verso la libertà, la democrazia e lo stato di diritto, per renderli capaci di aiutare se stessi. Non ci sarà una soluzione generale che possa essere valida per tutti. Si può trattare solo di un sostegno ponderato che deve essere adatto alle esigenze dei singoli paesi. La mia raccomandazione é di esaminare e giudicare accuratamente fatti e provvedimenti.

IP:
L’ex presidente americano Bill Clinton ha recentemente nominato Lei come modello per la Sua lungimiranza strategica. Se pensiamo alla notevole ascesa della Cina, dell’India o altri paesi, all’ancora incompiuto percorso della Russia verso la democrazia e al fatto che gli Stati Uniti non vogliono più assumersi tutta la responsabilità e hanno l’intenzione di ritirarsi almeno parzialmente, per la Germania e l’Europa quali sono le priorità più importanti della politica estera?

Kohl:
Per la Germania e l’Europa la priorità principale è assumere le proprie responsabilità insieme agli USA per tutto il mondo. Oltre a Russia, a Cina, Asia e il mondo arabo, esiste anche l’Africa di cui non dobbiamo dimenticarci, insieme a tutti i problemi e difficoltà presenti. In questo ambito, il mio desiderio per il nostro paese e anche per l’Europa che la consapevolezza aumenti ancora; la storia non è determinata a priori, ma è piuttosto il risultato delle azioni delle singole persone. Questa è il criterio con cui veniamo misurati nella storia. Non dobbiamo esserne spaventati, ma al contrario questa idea dovrebbe infonderci coraggio e ottimismo per il percorso che ancora dobbiamo percorrere. E dobbiamo cogliere tutte le occasioni che abbiamo. Anche a rischio di ripetermi, questa è la più importante priorità per la politica estera della Germania e dell’Europa: assumere la responsabilità per il mondo intero.

Domande poste da Henning Hoff, Joachim Staron e Sylke Tempel della rivista POLITICA INTERNAZIONALE

 

INTERVISTA A HELMUT KOHL: “DOBBIAMO RIPORTARE LA FIDUCIA IN EUROPA”

20 settembre 2011

Helmut Kohl

“Durante la mia carica di cancelliere, la Germania non avrebbe mai approvato l’ammissione della Grecia nella Zona Euro”

Domande di   Henning Hoff, Joachim Staron e Sylke Tempel della rivista tedesca Politica Internazionale

L’intervento in Libia, la crisi in Grecia, la rivoluzione energetica, la Germania mette in gioco la fiducia nei confronti della sua politica estera?

Sì, dice l’ex-cancelliere Helmut Kohl nell’intervista della rivista tedesca “IP” (Politica Internazionale). Da alcuni anni la Repubblica Federale di Germania non è più affidabile, ora però è arrivato il momento in cui la Germania e l’Europa devono assumersi le loro responsabilità.

IP:
L’“Affidabilità” Signor Kohl, una volta era il fondamento della politica estera tedesca, invece l’ex-cancelliere Schröder, rifiutando di partecipare alla guerra in Iraq nel 2003, ha messo i rapporti transatlantici a dura prova. Ora si aggiungono l’astensione rispetto all’intervento in Libia nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una solitaria rivoluzione energetica, e il riluttante impegno per la crisi in Grecia e il salvataggio dell’Euro. La Germania ha perso la sua bussola?

Helmut Kohl:
Purtroppo non possiamo che constatare che è così che stanno le cose. La Germania da alcuni anni non è più affidabile, né in politica interna, né in politica estera. Anche se lo si dimentica spesso, Konrad Adenauer schierandosi senza ambiguità con le potenze occidentali non si era affatto procurato solo degli amici; per imporre la sua politica ha dovuto affrontare, soprattutto in patria, resistenze di ogni tipo, ma è riuscito a creare un’impostazione di fondo chiara e affidabile su cui si sono potuti basare tutti i cancellieri successivi. Mi ricordo dei mesi drammatici della svolta degli anni 1989/90. Anche se la mia linea verso la riunificazione della Germania ha portato a far vacillare brevemente la fiducia dei nostri vicini e dei nostri partner nel mondo nei nostri confronti, abbiamo tuttavia superato la prova in modo brillante. Nel circolo dei nostri alleati occidentali ha contribuito in modo fondamentale il fatto che contemporaneamente all’unità tedesca ho sempre tenuto fede alla nostra politica europeista, promuovendo l’approfondimento della Unità europea con delle iniziative molto concrete. La riunificazione del nostro paese in pace e libertà in neanche un anno dalla caduta del muro, fino alla firma dei trattati e il Giorno della Riunificazione sono un impressionante esempio del credito di fiducia che ci siamo guadagnati con il nostro lavoro nell’arco di tanti anni. Non era scontato aspettarsi che in questi tempi difficili e insicuri i nostri partner e vicini restassero al nostro fianco, e questo per noi rappresenta un obbligo per il futuro, non lo si può sottolineare abbastanza.

IP:
Prendendo in considerazione i punti che Lei affronta nella sua domanda, guardando lo sviluppo degli anni recenti, mi chiedo, quale sia la posizione della Germania in questo momento e quale sarà in futuro. Lo stesso si chiedono anche i nostri vicini e alleati all’estero. Di una cosa, mi sono accorto recentemente, così come anche altri: alcune settimane fa, quando il presidente americano Obama è venuto in Europa, ha visitato Francia e Polonia, ma non è stato in Germania. Dopo tutto quello che noi tedeschi e americani abbiamo passato e vissuto insieme, e che tutt’oggi ci unisce profondamente, mai avrei  pensato che il presidente americano in carica potesse venire in Europa e non visitare la Germania, di fatto ignorandola completamente.

Kohl:
“Dobbiamo stare attenti a non perdere interamente la fiducia dei nostri alleati. Dobbiamo ritornare quanto prima alla nostra tradizionale affidabilità. È necessario rendere chiaro agli altri quale sia la nostra posizione e in quale direzione vogliamo andare, far capire qual è il nostro posto sullo scacchiere geopolitico e, che abbiamo valori e principi che difendiamo e promuoviamo costantemente. Sopratutto dobbiamo decidere tutti insieme e trovare una linea congiunta da seguire anche qualora dovessimo trovarci a fronteggiare grandi difficoltà”.

IP:
La politica estera della Germania sta cambiando. Come si spiega questo fatto?

Kohl:
Questa domanda prende la stessa direzione di quella riguardante la bussola. Se non si possiede una bussola, cioè se non si sa dove ci si trova e dove si vuole andare, vengono a mancare anche competenza e forza creativa nella leadership, e semplicemente non siamo in grado di attenerci con continuità alle decisioni prese nella politica estera tedesca perché manchiamo di consapevolezza. La situazione è tanto semplice quanto complicata. I rapporti transatlantici, l’Europa unita e in particolare la cooperazione con quegli alleati che sono più piccoli  ma comunque di pari dignità, l’amicizia franco-tedesca, i rapporti con i nostri vicini nell’Est e sopratutto con la Polonia, la nostra relazione con Israele, le responsabilità a livello mondiale; sono questi i fondamenti a cui la nave Germania è rimasta saldamente ancorata nel passato e che io ritengo validi ancora oggi, anche se sarà necessario adattarli al presente con tutte le sue sfumature. Se abbandoniamo questi nostri ormeggi, galleggeremo – in senso figurato – senza bussola e senza ancora nell’oceano, correndo il rischio di diventare inaffidabili e perdere la nostra identità. Le conseguenze sarebbero catastrofiche: verrebbe a mancare la fiducia di fondo che abbiamo guadagnato, si amplificherebbe il senso di incertezza e in ultimo la Germania rimarrebbe isolata. Credo che nessuno si auspicherebbe un tale risultato.
Quello che mi irrita e allo stesso tempo mi fa riflettere sono le opinioni che sentiamo ripetere in continuazione: oggi tutto è cambiato, il mondo non è più così semplice, dopo la fine della Guerra fredda ogni cosa è diventata più complessa anche per la politica, perché stiamo vivendo un momento di crisi di portata storica, che porta sempre nuove sfide. È vero che fino agli anni 89/90 il mondo era più facile da capire, perché, per cosi dire, esistevano solo due poli.
Anche se la pianificazione politica era fondamentalmente meno complessa e le sfide da affrontare meno imponenti, è controproducente trarre facili conclusioni e promuovere l’idea che tutto fosse piú facile all’epoca della Guerra Fredda, quando avevamo un mondo spaccato in due parti, una libera e l’altra oppressa, la nostra patria divisa, e vivevamo un periodo di incertezze costanti con la minaccia di una nuova guerra mondiale. Questo atteggiamento rende solo palese l’attuale senso di scoraggiamento verso nuove sfide e nuove opportunità e rivela una eclatante mancanza di conoscenze storiche insieme alla consapevolezza di come fosse in realtà difficile agire responsabilmente in quell’epoca.

Per fare il punto della situazione: gli enormi cambiamenti che avvengono nel mondo non possono essere una scusa per chi non ha una posizione o idee per il futuro. Al contrario: sono proprio gli enormi cambiamenti a richiedere una posizione stabile e chiara, affidabilità e continuità. Mi riferisco soprattutto alla politica; tanto più diventa complesso il mondo quanto più diventa importante che coloro che devono prendere le decisioni si assumano le proprie responsabilità e che dimostrino le loro capacità di leadership, rappresentando le loro opinioni e principi e dando risposte in modo chiaro e ripercorribile. Solo così sarà possibile creare certezza e affidabilità in un mondo complesso, guadagnandosi fiducia nel tempo e coinvolgendo anche gli altri. Unicamente in questo modo sarà possibile raggiungere gli obiettivi in modo costruttivo. Allo stesso tempo dobbiamo smettere di interpretare i cambiamenti nel nostro paese e nel mondo come minacce e accadimenti di portata storica. Piuttosto è vero il contrario: dobbiamo percepire ed accogliere i cambiamenti come chance e in generale rendere le persone più fiduciose verso questi cambiamenti.

DOMANI SARA’ PUBBLICATA LA SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA

In collaborazione con la rivista Critica Sociale

ESTERI, Pakistan, tra uccisioni, catture e attentati.

29 agosto 2011

Il numero due di Al-Qaeda, Atiyah Abd al-Rahman è stato ucciso il 22 agosto, a riferirlo sono fonti

Emanuela Marotta

americane. E’ uno dei più grandi terroristi, se si può chiamare così, ed è il numero due dopo Bin Laden. Di risposta agli americani ora il Pakistan è una vera e propria trappola per Al-Qaeda. La morte di Rahman è una grande perdita per il terrorismo islamico, Al Zawahri, il successore di Bin Laden, contava molto su di lui per contribuire a guidare e gestire l’organizzazione terroristica. Il Pakistan come molti altri paesi musulmani in questo periodo di rivolte, catture ed uccisioni, sta vivendo momenti di guerriglia e di un atroce terrorismo interno. In Pakistan non si ha più tempo per disperarsi ed avere paura. Sempre oggi a Quetta capoluogo del Baluchistan, la più estesa provincia del paese un sanguinoso assalto ad un treno nel sud-est del Pakistan ha causato tre morti e 18 feriti. Non c’è stata ancora nessuna rivendicazione ma la polizia sospetta che possa essere un movimento separatista che punta al territorio e al suo controllo perché situato tra l’Iran e l’Afganistan. Pochi giorni fa invece, un ragazzo di 16 anni si è fatto esplodere in una moschea di Islamabad. Il bilancio dell’attentato è di 53 morti e di oltre 120 feriti, la città e la popolazione sono ancora scosse per l’accaduto. Questo giovanissimo kamikaze si è fatto esplodere in mezzo ad una folla di persone durante il venerdì di preghiera nel distretto tribale di Khyber, area altamente turbolenta e porta d’ingresso in Afghanistan. Da alcune ricostruzioni, il giovane kamikaze sarebbe entrato nella moschea da una finestra e si sarebbe fatto esplodere nella sala principale che in quel momento accoglieva quasi 600 fedeli. La violenza non si  ferma neanche nel mese del Ramadan, manca solo una settimana alla conclusione e si spera che non ci siano altri atti così violenti. L’attentato alla moschea di Islamabad viene considerato uno dei più gravi degli ultimi mesi nel Pakistan, la giovane età dell’attentatore e la  tattica usata fanno  pensare ad un’azione dei talebani che controllano il valico di frontiera dove sono frequenti gli scontri tra diversi gruppi tribali e bande criminali. Da alcune testimonianze si pensa che sia una rivendicazione perché alcuni giorni precedenti alla strage dei militari sono stati cacciati dai capi della comunità tribale locale, inoltre alcuni superstiti hanno dichiarato di aver sentito il giovane urlare prima di farsi esplodere: ”Chi mi butterà fuori ora?”, da questa esclamazione si può dedurre che è una vendetta da parte dei talebani. Non ci si può più muovere in Pakistan, tutto è in rivolta, tutti sono in rivolta. Troppi interessi e troppe persone che vogliono il potere o accaparrarsi qualcosa sia dall’interno che dall’esterno.

di Emanuela Marotta

LA SOLITA CENSURA NELLA CINA COMUNISTA

7 luglio 2011

Jiang Zemin

Ancora censura cinese sul web. Infatti se si prova a scrivere su un qualunque motore di ricerca cinese Jiang Zemin si ha solo  il seguente risultato:
“IN OTTEMPERANZA ALLA  LEGGI E REGOLAMENTI E DIRETTIVE IN MATERIA, I RISULTATI
NON POSSONO ESSERE DIMOSTRATI”. Tale è la reazione del governo cinese dopo la diffussione della notizia della presunta morte dell ex lesder cinese Jiang Zemin 84 anni presidente dal 1993 al 2003. Le voci infatti erano aumentate dopo la sua assenza alle celebrazioni per i 90 anni del partito comunista cinese

Francesco Bordoni

Tunisia: è iniziato il processo a Ben Ali

23 giugno 2011

Emanuela Marotta

di Emanuela Marotta

Lunedì 20 è incominciato il processo all’ex presidente della Tunisia, Zine El Abidine Ben Ali e alla moglie Leila Trebelsi. Entrambi sono accusati di possesso di denaro, gioielli, armi e droga trovati nei loro palazzi presidenziali, le loro “umili” dimore. Per gli imputati sarà l’inizio di una lunga serie di processi ma già si è diffusa la notizia che la difesa, cinque avvocati, chiederanno un rinvio e che lo stesso Ben Ali ha respinto tutte le accuse dichiarandole “disonorevoli e immaginarie”. La giustizia penale e militare, non più nelle mani del dittatore, è decisa a procedere con fermezza in questo lunghissimo processo per dimostrare ai tunisini e non solo, che il cambiamento continua ad andare avanti e che la giustizia punisce ancora nel paese; bisognerà solo verificare se in questo caso la giustizia sarà effettivamente uguale per tutti. Più di un centinaio di persone ha preso posto nell’aula e si sono verificati momenti di agitazione fuori dal tribunale. Molti cittadini manifestavano la loro rabbia verso quell’ex presidente, assente all’udienza, che “si è solo arricchito con i nostri soldi”, parole dichiarate da un tunisino che durante i giorni della rivoluzione ha perso il lavoro. Altri manifestanti invece sono stati allontanati dal tribunale e alcune lamentele nell’aula hanno fatto rallentare l’udienza. I tunisini volevano vedere il dittatore processato, volevano che rispondesse davanti alla legge, non hanno accettato la sua fuga in Arabia Saudita e il suo snobbare la Tunisia e la giustizia, c’è chi urlava “andate a prenderlo”. Fuori dal tribunale famiglie intere che hanno perso il lavoro e genitori che hanno perso i figli negli scontri hanno lasciato dichiarazioni senza timori ai giornalisti, c’è chi con coraggio e orgoglio ha detto: “solo ora sono fiero di essere tunisino, quello lì, (Ben Alì) è un codardo”. Non bisogna dimenticare che Zine El Abidine Ben Ali e stato anche accusato di omicidio, riciclaggio di denaro e tortura, per tutti questi reati c’è la pena di morte all’orizzonte.

Angolo Disumano: Sudafrica, “stupro correttivo”

14 giugno 2011

di Emanuela Marotta

Emanuela Marotta

Rimango ogni giorno sempre più sconvolta e ferita dalle atrocità che si verificano sulla terra. Atrocità che vengono troppo spesso ignorate perché non fanno notizia o potrebbero farne troppa. Nessuna autorità si prende la responsabilità di parlarne, di far alzare un grande polverone, solo giornalisti coraggiosi o associazioni minuscole e blogger fanno in modo che queste voci arrivino. Il nostro paese è tra quelle nazioni che spesso decide di non parlare di alcuni argomenti e qui la mia domanda nasce spontanea, perché c’è chi osa tacere? L’informazione non deve essere globale e non bisogna tutelare e sconfiggere le crudeltà? Utopia? In Sudafrica da diverso tempo si stanno verificando stupri disumani, chiamati “stupri correttivi”, svolti collettivamente o solo da una “persona” su vittime femminili che agli occhi di questi “uomini” hanno un solo grande “difetto”, sono lesbiche. Per giustificare e spiegare questi loro stupri dicono che è una pratica “educativa”, messa in atto con sconvolgente libertà e tranquillità perché il Sud Africa è la capitale dello stupro nel mondo. Un’altissima percentuale ha stabilito che le ragazze tra i 15-16 anni in Sud Africa ha più possibilità di finire tra le mani di uno stupratore che di studiare. Il maschilismo è molto presente a causa della povertà e dell’ignoranza, ma la cosa ancora più sbalorditiva è che molti maschi Sud Africani di appena 11-12 anni, hanno dichiarato che costringere una ragazza a fare sesso non è un atto di violenza. C’è anche un’altra realtà purtroppo, quella della NON denuncia, molti stupratori non vengono presi perché non vengono denunciati o per paura o per ignoranza, quindi rimangono liberissimi di farlo ancora e su chiunque e ancor peggio questi soggetti rimangono convinti di non aver fatto nulla di male. Su internet questa pratica “educativa” viene chiamata “catastrofe umana colossale”, ecco perché questa deve diventare una battaglia di tutti  contro l’omofobia e la povertà di questi paesi lasciati soli a tiranni con mentalità, se si può chiamare così, completamente fuori dalla ragione. Si deve porre fine a questo sconvolgente “modo di pensare” e purtroppo anche di fare, come se stuprare e farlo su di una persona omosessuale sia legale, normale, punibile perché il loro amare persone dello stesso sesso viene considerato “un vizio”, “uno sbaglio”, “un crimine”. Ora vi pongo due domande: Amare è scorretto? Mentre, stuprare è corretto? Vi lascio riflettere, se poi ci sia da riflettere per rispondere a queste due semplici domande. Non riesco a chiamarli animali e neanche bestie questi esecutori di una giustizia tutta loro, ho troppo rispetto per il genere animale. La mia mente e il mio cuore non possono credere che ancora oggi esistano pratiche così feroci e dei motivi così futili sulle quali giustificare uno stupro o un omicidio, non si devono lasciare libere queste persone, a loro gli si deve negare la libertà. Cosa significa, vi prego qualcuno me lo spieghi? Cosa diavolo è lo stupro correttivo? Proverò a spiegarlo io come se tutte le vittime dello stupro correttivo potessero raccontare ed esprimersi al posto di quelle persone che hanno fatto e detto troppo poco. “Camminavo mano nella mano con la mia fidanzata, qualcuno all’improvviso mi ha aggredito vigliaccamente alle spalle afferrandomi con forza e scaraventandomi per terra. Le sue mani mi stringevano prima le braccia poi sempre con forza ha incominciato a toccarmi, mi ha subito riempito di schiaffi e pugni, mi ha dato anche qualche calcio con tutta la sua forza e crudeltà, volevano stordirmi per non riconoscerli. Hanno incominciato ad abusare di me, erano tre, forse quattro, mi hanno stuprata per cinque ore di seguito, hanno provato anche a strangolarmi, mi hanno torturato e accoltellato più volte”. Queste tutte insieme sono solo una piccola parte delle atrocità che hanno fatto a tante donne, alcune sopravvissute altre no e solo perché omosessuali. “Stupro correttivo” e lo ripeto ancora e ancora “stupro correttivo”, che possano queste due parole regnare nella mente di chi non sta facendo nulla per fermare tutto questo. Voglio anche che entri bene nelle menti di tutti i lettori e che sentano un male esistenziale,  che sentano il cuore spezzarsi e una rabbia invadere il loro corpo. Tutta questa vicenda è una questione delicatissima difficile da affrontare con le parole ma semplicissima con i fatti. Anche i gay nei paesi del Sud Africa sono minacciati e in alcuni casi arrestati o addirittura uccisi. Quello che non mi torna è che un paese come il Sudafrica viene visto dal mondo intero come un paese, dopo l’apartheide, molto impegnato contro le discriminazioni, è stato il primo paese ad aver dichiarato fuorilegge nella sua Costituzione la discriminazione sessuale non solo riconosce anche i matrimoni tra gay. Come si possono quindi svolgere questi atti disumani in questi paesi del Sud Africa avendo leggi così all’avanguardia? Perché le leggi vanno fatte ma anche applicate e non solo vanno fatte al più presto leggi che tutelano e condannano. Bisogna fare molta pressione pubblica, riuscire a far arrivare e raccontarle, queste orribili pratiche, in tutto il mondo denunciandole. Purtroppo la popolazione Sud Africana cresce con i pregiudizi e non con un’istruzione. Concludo con un appello: potenze fatevi avanti, associazioni non mollate, giornalisti raccontate e a tutti i lettori fate il passa parola, e siate  consapevoli di queste atrocità.

 

Sette ciclisti estoni spariscono in Libano. Qualcuno chiama in causa Gheddafi

28 marzo 2011

di Matteo Bressan

Sono passati cinque giorni dal sequestro dei sette Estoni che percorrevano la valle della Bekaa provenendo dalla Siria a bordo di biciclette. Dalle ricostruzioni, peraltro confuse che si sono susseguite, sembrerebbe che i sette cittadini siano stati circondati da uomini armati a bordo di due furgoni e una Mercedes bianca senza targa.

In un primo momento, quando non era stato possibile chiarire la nazionalità dei malcapitati, le agenzie avevano annunciato il sequestro di sette europei, in un secondo momento era circolata la notizia che il gruppo fosse composto da Estoni ed Ucraini.Subito dopo però, una nota del Ministero degli esteri ucraino, smentiva la presenza dei propri concittadini.

Sul fronte estone invece già venerdì è iniziata a trapelare un’evidente preoccupazione proprio dal Ministro degli Esteri Urmas Paet che ha ribadito di non aver ricevuto nessun messaggio dai sequestratori e non ha potuto fornire pubblicamente dettagli sui sette turisti Estoni. Sono però trapelate alcune notizie da uno dei familiari ed è emerso un particolare sul quale è doveroso fare una riflessione. Sembrerebbe infatti che uno degli estoni lavorerebbe per un’azienda specializzata nella realizzazione di software utili ai sistemi di geolocalizzazione.

Sul fronte delle ricerche il Governo estone, tramite il Ministro degli Esteri Umas Paet, ha informato l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri Catherine Ashton, i Ministri degli Esteri di  Francia, Turchia, Italia e i diplomatici di Gran Bretagna, Stati Uniti e Polonia. Le autorità libanesi stanno setacciando la zona della Bekaa, valle rinomata per il traffico di droga e armi controllata da Hezbollah, nel tentativo di stabilire un contatto con i sequestratori.

Anche la politica libanese si interroga su questo sequestro e il Presidente delle Forze libanesi Samir Geagea, lo scorso venerdì, ha manifestato le sue preoccupazioni su un evento che potrebbe destabilizzare il già precario equilibrio del Libano. Va ricordato infatti che sono trascorsi ben due mesi dalle dimissioni del Governo Hariri e che gli episodi di tensione non mancano, come testimonia l’esplosione nella notte del 26 marzo di una bomba nella cittadina di Zahle presso un chiesa cristiana.  Ad oggi però sia da quanto trapela dalle dichiarazioni ufficiali che da quello che si legge sulla stampa araba si ha la sensazione, avvalorata dalla diversità delle piste che si stanno seguendo, che si stia brancolando nel buio.

Le ipotesi che maggiormente sono circolate tra venerdì e sabato sono tra le più disparate ma tutte degne di nota. Si è partiti infatti dal collegare questo sequestro all’arresto avvenuto un anno fa a Kiev di un leader palestinese, fatto che avrebbe determinato il sequestro di cittadini ucraini, della cui presenza lo stesso ministero degli esteri ha dato smentita, per un’ eventuale trattativa di scambio. Successivamente si è pensato ad un’azione di disturbo, organizzata dalla Siria tramite Hezbollah, per creare disordine nella valle della Bekaa ed ostacolare quindi la visita in programma nei prossimi giorni di Hariri.

Il giornale kuwaitiano Al Anba ha infine citato una fonte del campo palestinese di Ai nel Helwe, che avrebbe collegato il rapimento dei sette estoni con le vicende libiche. I sequestratori infatti, appartenenti all’organizzazione Fath al Intifada, sembrerebbero essere palestinesi, forse legati e sostenuti economicamente da Gheddafi, il quale in questo modo avrebbe voluto mandare un messaggio all’Europa.

Poche ore dopo le dichiarazioni apparse su Al Anba, un portavoce di Fath al Intifada ha prontamente negato qualsiasi coinvolgimento nel rapimento precisando che gli unici obiettivi della loro organizzazione sono la lotta per la causa palestinese. Forse è ancora presto per affermare che il Libano sia ripiombato nella spettrale spirale dei sequestri di occidentali, che caratterizzarono la seconda metà degli anni ‘80 nella guerra civile libanese, ma la preoccupazione che si percepisce e il silenzio che circonda questa vicenda si fa sempre più assordante.

Concetto di guerra e convenienze politiche

23 marzo 2011

di Matteo Bressan

I bombardamenti sulla Libia sono iniziati da quattro giorni e ancora non si vedono le bandiere arcobaleno che tanto hanno spopolato ai tempi della guerra in Afghanistan e Iraq. Che cosa è cambiato in questi anni nei sani principi che ispirano chi legittimamente rifiuta qualsiasi tipo di intervento militare? A ben vedere nulla, ma andando a leggere le cronache si scopre che da quando alla Casa Bianca è arrivato il nobel per la pace Obama si è smesso di protestare contro gli USA. Qualcosa però non torna. La guerra in Afghanistan c’è ancora, i raid contro i talebani si fanno ancora e addirittura si è anche iniziato a sconfinare in Pakistan pur di fermare il sostegno di cui godono le varie bande armate che si aggirano per l’Afghanistan. Se poi ci si accorge che buona parte della sinistra italiana spinge per menare le mani a Gheddafi, e la Lega Nord invece frena per i leciti timori della possibile invasione di profughi, qualche riflessione va fatta. Il sospetto che la sinistra pacifista voglia dare una lezione al rais, più per contestare i rapporti intercorsi tra questi e il Presidente Berlusconi, che per una chiara visione dello scenario libico è forte. Non si comprende però quale dovessero essere i rapporti tra l’Italia e la Libia, e più in generale tra i paesi occidentali e quei paesi produttori di petrolio governati da regimi autoritari. Il nodo della questione, non può essere fatto ricadere sui rapporti tra Italia e Libia, strategici nella politica energetica italiana, così come quelli con la Russia o la Turchia. Una politica estera che cerca di garantire delle linee di rifornimenti energetici non può essere misurata attraverso la categoria della democraticità dell’interlocutore. Se a questa considerazione si aggiunge lo storico disinteresse dell’Unione Europea, nel garantire una gestione collegiale tra tutti i paesi del mediterraneo, in materia di flussi migratori, si comprendono i legami che si erano instaurati non da Berlusconi, ma da tutti i Governi italiani che hanno cercato di stabilire un modus vivendi con il Rais. Di fronte ad Unione Europea sorda a questa problematica, così come lo è stata anche sul fronte degli approviggionamenti energetici, non si capisce per quale motivo la politica estera italiana debba esser criticata con categorie moralistiche, secondo le quali il solo fatto di partecipare insieme a Gazprom nella realizzazione di South Stream sarebbe un’operazione da contestare in tutti i modi. Ora che la coalizione dei volenterosi ha deciso di saldare il conto con Gheddafi si capirà se la Libia, entità statale e geografica creata dall’Italia, si avvierà verso una radicale trasformazione in senso democratico oppure si andrà smembrando in due o forse tre entità distinte, o peggio ancora diventerà un avamposto di Al Qaida.

Dall’Unione Mediterranea alla politica delle “cannoniere”

11 marzo 2011

di Matteo Bressan

Le ultime cronache degli scontri tra le forze di Gheddafi e i rivoltosi ci riportano indietro nel tempo, esattamente alla guerra del deserto tra Rommel e Montgomery. Assistiamo ancora una volta ad un guerra paradossalmente classica dove si avanza sulla stessa strada litoranea dove più di sessanta anni fa si fronteggiarono le truppe dell’Asse contro gli Alleati.  Anche questa volta, secondo alcune fonti, sarà di vitale importanza non allungare le linee dei rifornimenti onde evitare di rimanere, a corto di carburante e munizioni.
Nell’era della guerra asimmetrica e della rivoluzione degli affari militari, in Libia si è tornati ad una guerra quasi tradizionale.  Il tema dell’odierno conflitto libico è però molto più complesso e articolato rispetto ad un parallelismo storico militare sul quale comunque è doveroso fare alcune riflessioni.  In primo luogo desta curiosità l’atteggiamento e il richiamo alla politica delle “cannoniere” lanciato ieri dal Presidente Sarkozi, al quale potrebbe accodarsi anche il Premier Cameron; si rimane infatti sconcertati dall’apprendere la volontà francese di intervenire militarmente anche in maniera unilaterale.
È evidente che sono ben lontani i vaghi e fumosi proclami francesi circa l’Unione Mediterranea, peraltro mai andati oltre una serie di incontri e dichiarazioni programmatiche e mai trasformatisi in una vera e propria politica estera per il Mediterraneo.
Ad aggravare l’imbarazzo della posizione francese vi è poi una generale inazione delle principali potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, di fronte ad un quadro estremamente fluido e incerto che si sta profilando in Nord Africa e Medio Oriente.
La prudenza invocata anche ieri dal Ministro degli Esteri Franco Frattini, in merito alla necessità di concordare e condividere qualsiasi decisione in sede Onu, segna sicuramente un punto di grande importanza per la diplomazia italiana che piuttosto che lanciarsi in pericolose avventure unilaterali preferisce, in virtù di un generalizzata assenza di visione strategia sul Nord Africa, rilanciare la strada del sistema multipolare, unica carta in grado di reggere l’urto delle sfide dei nostri tempi.

DA BEVAGNA ALLA CINA PER AMORE DEGLI ORSI

10 marzo 2011

Orso cinese in gabbia in una fattoria della bile

di Francesco La Rosa

CHIEDIAMO LA SOSPENSIONE IMMEDIATA DI QUESTO BUSINESS ED Il  BOICOTTAGGIO DI  TUTTI I PRODOTTI DERIVATI DALLA BILE.

Appello di Dawn Lam, Penny Penrose e Bruno Tomassi residenti a Bevagna, per richiedere la sospensione dei crudeli prelievi quotidiani di bile agli orsi cinesi tenuti in cattività, addirittura in gabbie di soli due metri quadrati. I prelievi fatti con cateteri metallici inseriti nella cistifellea rischiano di portare i poveri malcapitati orsi alla paralisi.

Penny Penrose, Bruno Tomassi e Dawn Lam

Ma perché questi prelievi violenti di bile? Per i cinesi la bile è da sempre considerata importante in medicina perché è alla base di molti farmaci prodotti per la cura delle malattie del fegato degli occhi, e calcoli alle vesciche urinarie. Di fatto i quasi 7200 orsi tenuti in cattività sono una autentica catena di montaggio per la produzione di questa sostanza. Nell’Asia sud orientale come conferma una ricerca WSPA gli orsi bruni vengono catturati e venduti agli allevamenti, autentiche “Fattorie della Bile” ed il commercio di prodotti con base estratta dagli orsi ha posto di fatto una taglia sulla testa di ogni esemplare vivente.

La maggioranza dei cittadini cinesi di Pechino Shangai e Hong Kong è al corrente che gli animali sono sottoposti e resistono a livelli terribili di crudeltà e di abbandono, e si è dichiarata contraria a tale uso, ma  i tentativi di migliorarne gli standard di vita effettuati presso due strutture governative non hanno ottenuto alcun beneficio per gli orsi. L’unica consolazione è che per fortuna che i panda sono pochi e super protetti, altrimenti anche loro avrebbero fatto la stessa fine.

Rivolte in Nord Africa, cosa c’è dietro?

28 febbraio 2011

L’Opinione di Stefano Bonsegna

Molti sono gli avvenimenti, che da più di un anno a questa parte, stanno scombussolando le nostre giornate e le nostre frontiere meridionali. E tutti questi avvenimenti li stiamo vedendo non dal nostro punto di vista, ma da quello che ci dicono i Giornali, la Televisione, Internet, La Radio. Nessuno ha mai pensato che certi avvenimenti potrebbero essere visti da una altro punto di vista, avere altre cause? Qualcuno ha mai cercato di capire chi potrebbero essere gli eventuali veri ispiratori di certe iniziative? Potrebbero essere avvenimenti, raccontati in modo esagerato, per poterci poi condizionare? Cosa c’è dietro tutto questo? La Dietrologia è una materia molto ben conosciuta dai nostri Politici, Giornalisti, Magistrati, i quali ne fanno largo uso, credendo appunto di aver a che fare con un popolo di pecore! Ma stanno commettendo un grave errore.  Gli italiani, grazie alla loro esperienza di mala giustizia e cattiva politica, vissuta sulle loro spalle, sono diventati un popolo abbastanza maturo da recepire che dietro ad ogni loro iniziativa c’è del losco. Ad esempio, guardiamo ciò che sta succedendo in Libia. E se dietro alla verità televisiva e giornalistica, ci fosse invece un recondito interesse di alcuni paesi, invidiosi dei contratti che l’Italia ha stabilito (dall’era Prodiana, in poi) con la Libia su forniture di Gas e Petrolio e avessero loro fomentato il caos, in modo da poter poi giocare la loro carta? E se dietro ai disordini ci fosse Bin Laden, assetato di potere ed in procinto di accerchiare la nostra Europa, mettendola inginocchio per i rifornimenti di Petrolio e Gas per poi trasformarla in Eurabia, come già previsto dalla famosa e cara giornalista Oriana Fallaci. E se dietro ci fosse una società concorrente dell‘ENI, la quale avrebbe tutto l’interesse di creare confusione, visto i problemi dell’area Nord Africana e rimettere in discussione i contratti stipulati dalla Libia con l’ENI sulle forniture di Petrolio e Gas. Comunque sia, è impossibile che certe insurrezioni avvenute in Egitto, Tunisia, Libia ed altri stati del Nord Africa siano avvenute spontaneamente, in quanto per cultura popolare e per tradizioni, le popolazioni sono molto lontane dal significato di Democrazia, quindi queste popolazioni sono state istigate da qualcuno a cui sicuramente fa gola la ricchezza del sottosuolo di queste terre e prima o poi dovrà venire allo scoperto. Certo un favore a queste popolazioni lo ha fatto e grosso anche, sempre che questi poveri popoli non cadano dalla padella nella brace di altre più o meno velate dittature.

 


Libia, un altro paese arabo in rivolta, una popolazione che lotta per la libertà.

27 febbraio 2011

di Emanuela Marotta

Anche la Libia è in rivolta, dopo la Tunisia, che ha acceso gli animi rivoluzionari e poi ancora l’Egitto e l’Iran, i libici si sono letteralmente scagliati nelle strade e nelle piazze per prendersi la libertà. Stufi del regime totalitario durato 42 anni di Gheddafi, la popolazione è in rivolta da molti giorni, una ribellione sanguinaria tra chi sostiene ancora il “dittatore” e chi invece lo vuole fuori dal paese subito. Dalle ultime dichiarazioni che hanno rilasciato i militari e i poliziotti libici c’è una gran parte di loro che si è schierata con la popolazione per difenderla dagli attacchi dei fedeli di Gheddafi ma c’è anche una gran parte che si è unita alla sommossa finendo nella lista nera dell’orami ex presidente. Considerato e diventato tiranno in questi ultimi giorni dopo le ultime dichiarazioni fatte alla televisione: “ucciderò tutti quelli che si metteranno contro di me”, sono stati mandati dei suoi video dove accusa ancora una volta con un discorso l’Europa e l’America dei tumulti e di aver aizzato il popolo contro di lui. I video delle strade, dove le persone sono in preda al panico o nel pieno di una guerra civile si sono diffusi quasi in tutto il mondo, le ultime immagini riportate dai media hanno fatto vedere le fosse comuni dove vengono seppelliti centinaia di corpi. Le ultime affermazioni di Gheddafi fatte alla stampa sembrano dei vaneggiamenti di un capo orami spento e sconvolto, denuncia di alto tradimento l’Europa e i militari, nomina anche l’Italia e minaccia di bloccare le forniture del gas. Ha inoltre incolpato l’occidente di aver drogato i manifestanti e di averli pagati, gli egiziani e i tunisini che vivono il Libia sono costretti a scappare o a nascondersi. Le parole del leader libico hanno un gusto amaro, sembrano di un folle in preda al panico perchè il suo regime sta crollando e non è più in grado di controllare la folla inferocita contro di lui. Tutti i suoi beni e una gran parte dei suoi soldi sono stati confiscati e congelati da alcune banche, anche i suoi figli stanno scappando dal paese, i mezzi di comunicazione sono controllati e internet è stato bloccato ma c’è chi rischia anche la vita per far arrivare le testimonianze registrando dal cellulare e caricandolo su delle “finestre” nel web, che sono ancora aperte al mondo. Anno 2011, anno in cui la storia deve segnare indelebilmente il Magreb in completo tumulto, anno in cui gli arabi, tutti, stanchi dei loro regimi hanno reagito ai soprusi e hanno scelto l’insurrezione; la lega araba si è riunita proprio in questi giorni per discutere di quest’onda, non anomala ma tenuta a largo per molto tempo per poi scagliarla contro chi non ha avuto il vero valore musulmano.

 

Rivolte in Medio Oriente e Nord Africa: premesse simili ma conclusioni imprevedibili

22 febbraio 2011

di Matteo Bressan

L’ondata rivoluzionaria che sta scuotendo il Nord Africa così come il Medio Oriente non deve portarci a semplicistiche considerazioni. Si percepisce infatti la sensazione, da parte di alcuni opinionisti e politici italiani, di essere di fronte ad processo storico evolutivo che porterà, quegli Stati dove sono in atto imponenti stravolgimenti, al raggiungimento di vere e proprie forme di democrazia compiuta.
Sentendo poi alcuni agghiaccianti accostamenti tra quella che fu la rivoluzione iraniana e quello che si sta osservando oggi si rimane molto preoccupati.
Si viene a scoprire infatti che molti intellettuali e militanti della sinistra nostrana avevano guardato con speranzosa benevolenza alla rivoluzione di Khomeini salvo poi accorgersi, tempo dopo, quale tipo di minaccia si fosse venuta a creare in Iran. Oggi non conosciamo o quantomeno non possiamo prevedere quali saranno gli esiti di queste insorgenze in molti casi sorte a causa della povertà e dalla fame, ma in altri casi spinte o peggio ancora sostenute dall’Iran. Possiamo rimanere fermamente convinti che alla fine ci sarà un vero e proprio processo evolutivo delle Istituzioni e di quei paesi governati sin qui in maniera dispotica?
Stiamo valutando attentamente quale sia il rischio della nostra sicurezza energetica e le conseguenze umanitarie che si riverseranno sui paesi del Mediterraneo?
Siamo sicuri che alla fine di questo pericoloso domino non ci si possa ritrovare con un’influenza della Cina estesa al Nord Africa o peggio ancora alla nascita di formazioni appartenenti alla galassia di Al qaeda a poche miglia dalle nostre coste?
È possibile che in mezzo a tante e sanguinose rivolte si sia smarrita la visione strategia di quello che è in primo luogo il principale paese esportatore del fondamentalismo islamico?Ci si è forse dimenticati che il padrino dei movimenti terroristici presenti in Libano, Iraq e Afghanistan è riuscito anche in questa ondata di rivolte ad uscire sostanzialmente indenne. È pensabile che di fronte al crollo dei regimi illiberali del Nord Africa ci si dimentichi del vero manovratore, che vive al sicuro a Theran, e si finisca per accumunare il tutto in una grande rivoluzione per la democrazia?

Giuseppe Moles: le idee, il turbo della rivoluzione liberale

9 febbraio 2011

Intervista di Matteo Bressan

In un momento in cui il rapporto tra i giovani e la politica è ridotto al lumicino è forse

On Giuseppe Moles, laurea in scienze politiche, indirizzo internazionale; Professore universitario, Esperto di relazioni internazionali e di comunicazione e mass media

significativo (e per molti versi esemplare) discutere con l’on. Giuseppe Moles, un leader politico giovane ma già forgiato da forti esperienze ad alti livelli istituzionali, i temi più spinosi dell’attualità in un locale tradizionalmente frequentato da giovani romani all’ora dell’aperitivo domenicale.

On. Moles i giovani non hanno una grande opinione della politica italiana, ma al tempo stesso sono una componente decisiva per la vittoria elettorale. Secondo lei come è considerato il mondo giovanile dalla politica? E perché un giovane dovrebbe votare per il centro destra?

Innanzitutto sono felicissimo di questo incontro, perché “voi siete la politica” e perché avete il coraggio di fare politica ben sapendo che altrimenti la politica comunque si occupa di voi. Quindi, così come ho fatto io, fate politica per “legittima difesa” ma con il vantaggio di avere dalla vostra la forza delle idee vincenti: quelle idee che non solo hanno vinto prima ma che è necessario far vincere domani. Non è facile fare politica oggi venendo da una tradizione di Forza Italia in un momento storico così difficile. È molto più semplice invece essere stupidamente proni ai cattivi maestri della contestazione di sinistra. Inoltre sono felicissimo di essere qui perché voi siete la evidente dimostrazione che esiste ancora, e mi auguro anche abbia sempre più forza e rilevanza, quella componente giovanile che tanto ha fatto nei 16 anni della vita politica di Berlusconi, e cioè quella di Forza Italia, che è parsa a volte porsi in secondo piano rispetto al semplice movimentismo di destra sociale.

Ma allora può riuscire la fusione tra i due movimenti giovanili?

Assolutamente si, sono poche le cose che ci dividono dai nostri amici provenienti da AN ma molte quelle che ci uniscono. A condizione però che le nostre idee, i nostri valori, quello in cui crediamo, quello che Berlusconi ha sempre sostenuto non vengano offuscate dalle logiche di palazzo. Dobbiamo e dovete essere orgogliosi di quello che siamo, perché anche giovani ex FI sanno fare politica, magari non urlata, hanno idee che sono quelle giuste e sanno, quando vogliono e quando possono, portarle avanti con la forza e la coerenza che li contraddistingue.

Se ascoltiamo alcune voci sorge spontaneo un quesito: il PdL è all’inizio o alla fine del suo percorso politico?

Non possiamo cambiare il passato ma possiamo influire sul futuro. La rivoluzione di Berlusconi è nata per cambiare l’esistente. Non per gestirlo. In tutti questi anni a causa di una serie di fattori indipendenti dalla vera volontà di Berlusconi la rivoluzione liberale italiana è iniziata ma non si è compiuta, e ciò spesso proprio a causa delle logiche perverse della politica politicante. Tre esempi per tutti: il tradimento di Bossi del 94 con l’avallo del Presidente della Repubblica; le enormi difficoltà e i veti posti dall’UDC di Casini nel precedente Governo Berlusconi; la pazzia perversa di Fini oggi. Ben venga non solo una rivoluzione fiscale ma anche qualsiasi riforma che tenti di abbattere finalmente il potere vero, quello dell’establishment.

Ma proprio adesso On. Moles? Con tutte le difficoltà del momento storico?

Si, soprattutto adesso, perché è il momento storico che segnerà la frattura con il passato. O i poteri forti abbattono noi e Berlusconi o noi rilanciamo la grande riforma liberale con la forza delle idee. E quindi avanti con la riduzione delle aliquote, la separazione delle carriere dei magistrati, la cancellazione degli enti inutili, il presidenzialismo, la modifica del sistema elettorale.

Un sistema elettorale che non va bene perché di fatto siete dei nominati…

Chi lo dice ha ragione. La mia personale preferenza è per l’uninominale secco all’americana. Ma siccome ritengo che i sistemi elettorali sono degli strumenti, la fortuna o meno di un sistema elettorale la fa chi lo utilizza. Anche con un sistema elettorale uninominale si potrebbero verificare casi di “nominati” ma bisognerebbe vedere che tipo di assetto vogliamo e, sulla base di quello, adattare il sistema elettorale. Questa legge avrebbe potuto consentire anche a chi non ha enormi disponibilità finanziarie o di partito di entrare in Parlamento e portare la propria professionalità e contributo ed era questo l’intento di Berlusconi; purtroppo è anche vero che poi le perversioni hanno colpito questo sistema. Il ritorno al Mattarellum sarebbe un primo passo avanti. Secondo alcuni calcoli se al 2008 avessimo avuto il Mattarellum il Popolo della Libertà avrebbe avuto una maggioranza superiore perfino dell’attuale.

Che assetto ipotizza per un partito moderno? Il partito delle tessere o il partito che si mobilita solo per i grandi appuntamenti?

È ormai chiaro che a Berlusconi il contenitore PDL così com’è non piace. Quando Berlusconi dice potessi tornare a FI non fa solo riferimento al contenitore, ma fa riferimento a quello che FI era. Un insieme eterogeneo ma tendenzialmente unito dai valori comuni e rivoluzionari all’interno del quale senza le storture e le beghe del partitismo stile vecchia repubblica, convivevano tutta una serie di componenti senza che mai si sia verificato nessun tipo di divisione perché il programma rivoluzionario univa su quei principi e su quei valori tutti. In secondo luogo c’era una sintesi effettuata diversamente da Berlusconi che ha sempre premiato le persone in base non all’appartenenza a correnti o componenti ma in base a quello che sapevano fare o alle idee che avevano. Questo a maggior ragione era importante in quello che era il giovanile di FI, che era un pour puri di gente entusiasta che si era avvicinata a quelle che erano le idee vincenti. Qualsiasi sia il contenitore, se non ci si mettono le idee, rischia di diventare uno dei tanti partiti modello Prima Repubblica. Perciò anche io ho sottoposto, nel mio piccolo, un contributo in tal senso a Berlusconi sul futuro del nostro movimento.

Movimento o partito?

Mi piacerebbe che si tornasse al movimento. Mi piacerebbe che fosse più il partito delle idee che quello delle tessere.

Che opinione si è fatto della miriade di associazioni, circoli e club che compongono la galassia del PdL?

Qualsiasi iniziativa presente passata e futura che possa essere utile a far si che il PdL in quanto movimento possa diventare il partito unico del centrodestra italiano mi vede favorevole. Ma se l’intento fosse quello di affermare componenti o correnti mi farebbe schifo. Ho partecipato e parteciperò a qualsiasi manifestazione di queste realtà, ma se mi accorgessi che la finalità è separare anziché unire ne trarrò conclusioni.

Secondo lei Berlusconi ristrutturerà il centrodestra procedendo con un cambio generazionale?

Il cosiddetto “cambio generazionale” è un concetto molto populistico e mi fa venire i brividi. Un cambio generazionale significa annullare in un colpo solo sia cose positive sia fattori negativi allo stesso tempo. La classe dirigente di oggi era giovane ieri. Ma senza quella che è oggi la classe dirigente, i giovani di domani da chi potrebbero ricevere il testimone delle idee e dei valori vincenti? Anni fa ci fu una tesi di laurea affidata dall’ On. Antonio Martino ad una studentessa. Questa verificò che il 95 % dei testi di economia politica nelle Università italiane erano keynesiani e solo il 5% erano monetaristi. Le nostre idee, quelle di Berlusconi sono il libero mercato, la libera impresa, l’avversione alla patrimoniale e la limitazione dell’ingerenza dello stato. Da chi possiamo apprendere queste cose se cancelliamo una generazione che deve insegnare? Diverso è invece individuare nuovi e migliori strumenti che consentano a chiunque, a prescindere dalla generazione, di dare il suo contributo al PDL.

In questi giorni stiamo registrando l’ennesimo scontro tra politica e magistratura. Un duello infinito?

È necessaria la separazione dei poteri e la separazione delle carriere. Se una componente, seppure minoritaria, della magistratura fa politica non siamo in un paese civile: automaticamente rende non più liberi ed indipendenti gli altri poteri, e ciò alla faccia di quella grande componente della magistratura che fa il suo lavoro ed il suo dovere in silenzio. Questa è l’unica magistratura che noi rispettiamo, quella magistratura che non guarda dal buco della serratura per un anno sputando su uno dei principi liberali più sacri: la libertà personale e la privacy.

Che idea si è fatto di quanto sta avvenendo in Medio Oriente ed in particolare in Tunisia ed Egitto?

Se mai ce ne fosse bisogno è la dimostrazione del fallimento della politica del Presidente Obama. Fin dall’inizio ha abbassato la guardia nei confronti degli estremismi aprendo all’Iran e ad altri non solo ricevendone schiaffi in faccia ma anche legittimandoli e ponendo le premesse che potrebbero consentire loro di impossessarsi dell’intero Medio Oriente. L’appoggio di Obama alla piazza in Egitto non favorisce una transizione democratica gestita con l’attenzione dovuta. Tutti noi riteniamo che la libertà sia un valore assoluto ma, nonostante tutte le critiche, proprio Berlusconi ha bene esposto quella che deve essere una linea in politica estera giusta, indicando la necessità di una attenta e non frettolosa fase di transizione dell’Egitto. Hamas ha in mano Gaza, Hezbollah ha il potere in Libano, l’Iran è degli ayatollah, ci manca solo che l’estremismo islamico metta le mani sull’Egitto.

La scorsa settimana una sua collega, l’On. Calipari, ha contestato l’eccessiva spesa per le operazione militari in Afghanistan che, a suo dire, avrebbero tolto risorse dalla spese di ricostruzione e cooperazione. Qual è il suo punto di vista su questa vicenda e sulla situazione in Afghanistan?

L’On. Calipari è un’amica ma, come al solito, fa propaganda pur sapendo perfettamente che ogni operazione o intervento all’estero costa di tre fasi: militare, militare e civile, civile. È evidente che in Afghanistan siamo ancora nella prima fase, che è quelle di assicurare il controllo e la sicurezza sul tutto il territorio. Sarebbe molto bello poter solo stanziare soldi per fare asili senza che i bambini rischino di saltare su una bomba mentre vanno a scuola. Invece dovremmo aumentare uomini e risorse per portare a termine la missione e per consegnare il paese alle sue istituzioni. Altrimenti non si onorerebbe il sacrificio dei nostri morti. Non ti difendi da un RPG solo dicendo che hai stanziato soldini per opere di bene.

Ma perché non si parla abbastanza del peacekeeping italiano che rappresenta un modello vincente delle nostre Forze Armate?

I nostri militari si contraddistinguono per un approccio estremamente professionale e nello stesso tempo elastico negli impegni delle missioni all’estero, e questo è uno dei punti di forza delle nostre partecipazioni. È indubbio che ci siano state molte difficoltà per superare la propaganda cattocomunista che per anni ha identificato il militare con l’uomo di destra, il fascista. Oggi, per fortuna, il clima è in parte cambiato, e la gente pian piano è tornata e guardare con affetto le donne e gli uomini in divisa.

A proposito delle nostre missioni militari. Alla luce della caduta del Governo Hariri, ha ancora senso la nostra presenza in Libano?

Sono stato sempre contrario alla missione in Libano perché in realtà l’hanno voluta Prodi e D’Alema solo per far dimenticare che erano scappati dall’Iraq; in più hanno limitato e mortificato l’azione dei nostri militari con assurde regole di ingaggio. Se il compito affidato dall’ Onu era di disarmare Hezbollah le regole imposte dal nostro Governo hanno rischiato di mettere in pericolo i nostri militari, tanto da rischiare di farli trovare tra due fuochi senza possibilità di agire. Un esempio su tutti: se i nostri militari fermano un camion di armi di Hezbollah non possono sequestrarli ma devono chiamare i militari libanesi e consegnare loro uomini e armi; il problema è che, però, la gran parte dei componenti dell’esercito libanese proviene proprio da Hezbollah. Io sposterei i nostri militari dal Libano all’Afghanistan proprio per perseguire quanto detto prima: più truppe, più controllo del territorio, più sicurezza.

L’Occidente non deve chiudere gli occhi sul colpo di stato in Libano

26 gennaio 2011

di Matteo Bressan

Il Presidente libanese Michel Suleiman e il presidente del parlamento Nabih Berri hanno firmato il decreto con cui si incarica formalmente l’ex primo ministro filo siriano Najb Mikati di formare il nuovo governo libanese. Najb Mikati, il deputato centrista, uomo di affari vicino alla Siria si è affrettato a dichiarare che cercherà di essere il Primo Ministro di tutti i libanesi, tentando di smarcarsi dalle posizioni politiche di Hezbollah, salvo però la difesa della la resistenza nazionale.

Hani Mikati

Considerando che circa l’80% della comunità sunnita, schierata con Hariri, ha subito la nomina di Mikati a Primo Ministro, così come i cristiani maroniti di Samir Geagea e tutti gli altri partiti della coalizione 14 Marzo, c’è da restare molto scettici di fronte a queste prime dichiarazioni solo apparentemente concilianti. Chi conosce il Libano infatti sa bene che cosa significhi la resistenza nazionale e quali forze politiche, Hezbollah e Iran, hanno creato un vera e propria esaltazione della resistenza nazionale contro Israele.

Andando poi ad analizzare quali fattori abbiano determinato lo spostamento degli 11 parlamentari del leader druso Walid Jumblatt, che di fatto ha capovolto i rapporti di forza in Parlamento a favore della colazione dell’ 8 Marzo, si scoprono alcuni fatti inquietanti. Molti cittadini di Beirut hanno infatti testimoniato la presenza di numerosi miliziani di Hezbollah che sarebbero scesi armati per le vie di Beirut rievocando nelle menti dei drusi i sanguinosi scontri del 2008. Per questo motivo e per testimoniare le violenze e le minacce del Partito di Dio in queste ore i libanesi che si riconoscono nella coalizione elettorale che ha vinto le elezioni politiche del 2009 stanno scendendo in piazza per protestare contro il ribaltone che sta andando in scena in Libano.

Nel frattempo i cristiani maroniti guidati da Samir Geagea, già da due giorni, si stanno radunando a Freedom Square, la piazza nel centro di Beirut dove si trova il sacrario di Rafiq Hariri e gli uomini della sua scorta e nella quale si riversarono migliaia di libanesi per chiedere il ritiro della Siria, insieme alle altre componenti della coalizione del 14 Marzo hanno esposto cartelli contro Hezbollah e contro quello che pare agli occhi dei più attenti come un colpo di stato camuffato da ribaltone parlamentare.

Oggi a distanza di pochi anni si comprende che quel ritiro fu solo parziale e non intaccò mai il peso politico di Damasco negli affari libanesi sia nel settore della sicurezza che nella formazione dei quadri militari. In queste ore molto tese viene anche da chiedersi se e quale dovrà essere il ruolo della missione Unifil in un contesto che a questo punto è totalmente cambiato rispetto all’estate del 2006 e dove sarà difficile ipotizzare, seppur lontanamente, il disarmo di Hezbollah. Avrà ancora senso mantenere una forza multinazionale con un Primo Ministro che con molta probabilità cercherà di raffreddare le possibili condanne del Tribunale Speciale che indaga sull’omicidio Hariri?

Le prime reazioni internazionali non si sono fatte attendere e ieri sera il Dipartimento di Stato americano, pur riservandosi di verificare la composizione del nuovo Governo,  ha manifestato i rischi che potrebbe comportare la crescente influenza di Hezbollah nel prossimo esecutivo. Del tutto diverso l’approccio del responsabile della politica estera dell’ Unione Europea, Catherine Ashton che auspica che il neo Primo Ministro libanese si impegni per creare il più ampio consenso possibile intorno al nascente esecutivo. Ancora una volta e nonostante le evidenti pressioni di Hezbollah, l’Unione Europea ha perso l’occasione per chiamare, in maniera appropriata quello che solo chi non vuole vedere è a tutti gli effetti un colpo di stato.

Crisi di Governo in Libano: Hezbollah prepara il colpo di stato?

13 gennaio 2011

di Matteo Bressan

La crisi del già fragile Governo Hariri innescata dalle dimissioni di ben undici Ministri dell’opposizione sui trenta che compongono l’esecutivo sembra rappresentare una delle due opzioni in mano ad Hezbollah per fermare le ormai prossime accuse del Tribunale Speciale che indaga sull’omicidio del Premier Rafiq Hariri.
Di fatto con le dimissioni di un terzo dei Ministri il Presidente Michel Sleiman è obbligato a verificare le disponibilità di tutte le forze politiche per creare un nuovo esecutivo.
È chiaro a questo punto che l’obiettivo del Partito di Dio, che ha sempre visto il Tribunale come un’ingerenza dello stato ebraico nella vita politica libanese, sarebbe pronto a giocare la sua vitale partita affinché il nuovo esecutivo possa assumere una minore determinazione nel rispettare le ormai imminenti accuse della Corte.
Lo stessa dichiarazione dei Ministri dimissionari pubblicata sul sito Al – Manar, canale televisivo di Hezbollah, segna un possibile punto di non ritorno nella fase delle trattative e dell’ unità nazionale.
Vengono rivolti infatti dei precisi ringraziamenti al ruolo di mediazione svolto da Arabia Saudita e Siria nel tentativo di ridimensionare gli effetti dell’attività del Tribunale Speciale.
Allo stesso tempo però si riconosce il fallimento dell’azione dei due principali “padrini” della stabilità libanese e si punto il dito su quelle forze politiche, sostenute dagli Stati Uniti e da Israele, che avrebbero perso l’occasione di sottrarre il Libano dalla destabilizzazione.
Il messaggio dei Ministri dimissionari, così come la fase politica che si andrà a delineare nelle prossime ore potrebbe far sperare in una soluzione politica dell’attuale crisi ma allo stesso tempo non si può non denunciare con preoccupazione quali semi di rinnovata discordia si siano lanciati in queste ore.
Il passo dall’accusa di responsabilità politica delle forze, che a detta dell’opposizione guidata da Hezbollah avrebbero reso impossibile l’unità nazionale del Libano, alla discriminazione delle stesse potrebbe essere breve. Rapida e concretizzabile in poche ore invece potrebbero essere la presa del potere da parte di Hezbollah.
Non è infatti una novità che la seconda opzione in mano al partito di Dio per uscire dal vicolo cieco della probabile condanna del Tribunale sia quella di attuare una rapida presa del potere, facilitata dal grandissimo arsenale militare fornito in questi anni da Siria e Iran.
È bene ricordare che un simile scenario metterebbe seriamente a rischio la componente cristiano maronita della popolazione libanese che perderebbe in pochissimo tempo qualsiasi tutela e garanzia proprio in un momento così difficile per le minoranze cristiane del Medio Oriente.

Caso Battisti: Lula nega l’estradizione

2 gennaio 2011

Commento di Matteo Bressan – Coordinatore Provinciale Giovane Italia Terni

Carla Bruni

Il parere negativo dell’Avvocatura Generale del Brasile all’estradizione del terrorista Cesare Battisti anticipa  il parere che il Presidente Lula ha comunicato da poche  ore. In sostanza quindi l’Avvocatura e il Presidente Lula hanno riconosciuto  lo status di rifugiato politico ad un conclamato pluriomicida.

La gravità di una simile decisione è ovviamente sotto gli occhi di tutti perché di fatto si andrebbe a legittimare la lotta armata degli anni di piombo in Italia riconoscendo ad un brutale assassino l’onore di aver addirittura combattuto per una causa politicamente giusta. Si badi bene però che i contorni di questa vicenda non sono ancora molto chiari. Non bastano infatti le simpatie di alcune note star come l’attrice Fanny Ardant e la Carla Bruni nei riguardi di qualche terrorista nostrano a giustificare un certo buonismo verso i cattivi maestri. Vi è piuttosto un preoccupante atteggiamento

Luis Inàcio Lula Da Silva

culturale, se così può essere definito, che alberga nei salotti buoni, così come in molte università italiane, e che concepisce come “normali” alcune anomalie tutte italiane o peggio ancora, riconosce nelle lotta armata contro lo Stato e le forze dell’ordine delle giuste e sane motivazioni. Non si spiegherebbe altrimenti il clima di tolleranza manifestato da ampi settori della magistratura nei riguardi dei teppisti che hanno messo a ferro e a fuoco Roma lo scorso 14 dicembre. Non si spiegherebbe come sia possibile dare come per scontato l’occupazione permanente di alcune aule universitarie da parte di soggetti che tutto sembrano essere meno che studenti universitari. Non andrei quindi a scomodare e rispolverare l’ignominiosa dottrina Mitterand che ha consentito protezione ed impunità ad un folto gruppo di terroristi italiani per ricercare le cause che stanno consentendo a Battisti di farla franca ancora una volta. Certamente pur non disponendo ancora di elementi che possano chiarire quali possano essere le ragioni di un simile atteggiamento da parte delle istituzioni brasiliane posso altresì avanzare dei leciti dubbi sulla credibilità delle medesime istituzioni che sia a livello economico che a livello diplomatico hanno manifestato una notevole dinamicità soprattutto negli ultimi anni.

Cesare Battisti

Quanto è credibile a livello internazionale  uno Stato che aspira ad essere la quinta economia al mondo e che al tempo stesso riconosce l’asilo politico ad un terrorista come Cesare Battisti? Dopo questa vicenda si potrà ancora dare credito ad uno paese che non più di qualche mese fa aveva cercato addirittura di svolgere un ruolo determinante insieme alla Turchia nella complessa questione del nucleare iraniano?

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Il potere della Carlà è immenso e Lula si è sottomesso.
Mi viene il sospetto che dietro a quello strano terrorismo di Sinistra, ci sia stata proprio la Francia. Strano come tutti i terroristi (Brigate rosse), dopo aver compiuto misfatti e crimini di ogni genere, scappassero proprio in Francia!
Stefano Bonsegna

Perugia, l’ambasciatore del Marocco in visita in Provincia

21 dicembre 2010

Un ospite d’eccezione in Provincia con la visita dell’ambasciatore del regno del Marocco, S.E. Hassan Abouayoub, ricevuto nei giorni scorsi dagli assessori provinciali alle Attività Culturali, Donatella Porzi, alla Viabilità Domenico Caprini e l’assessore regionale alla Cultura Fabrizio Bracco. “E’ la prima volta che un ambasciatore marocchino varca le soglie delle istituzioni locali umbre – è stato detto – e l’intento è quello di stringere rapporti per collaborazioni di carattere culturale, che diano spazio alle due realtà umbre e marocchine insieme”. Si potrebbe pensare al rilancio di Villa Fidelia o il Trasimeno con manifestazioni magari di carattere musicale poiché il Marocco, è stato ricordato, è la culla della musica. L’assessore Porzi ha, quindi, parlato di un progetto del Comune di Marsiglia che valorizza gli sport equestri e questa potrebbe essere una buona base di partenza visto le tradizioni di questi sport anche da noi.

18 dicembre: giornata della moratoria per la pena di morte

19 dicembre 2010

di Matteo Bressan

Il 18 dicembre 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni unite ratificava, 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti, la moratoria universale della pena di morte approvata dalla commissione.
La moratoria è una proposta di sospendere l’applicazione della pena di morte in tutti i paesi appartenenti alle Nazioni Unite.
Va precisato che la moratoria tecnicamente sospende l’utilizzo della pena di morte che però rimane sostanzialmente presente negli ordinamenti giuridici dove questa trova applicazione.
L’Italia, Amnesty International e la Comunità di Sant’Egidio sono stati sin dai primi tentativi i principali protagonisti di questa iniziativa in campo internazionale.
Questa importante ricorrenza ci colpisce oggi più che mai anche alla luce di quello che è il dibattito sempre aperto sulle sentenze capitali e sulla deterrenza che queste avrebbero sui potenziali assassini.
L’ultimo esecuzione, dell’omicida John David Duty, avvenuta ieri negli Stati Uniti ha destato grandi polemiche alla luce dell’utilizzo di un farmaco veterinario usato per ammazzare animali.

Wikileaks: Hezbollah può colpire Israele

12 dicembre 2010

di Matteo Bressan

I documenti confidenziali divulgati da wikileaks confermano i timori e i sospetti della comunità internazionale circa il riarmo del Partito di Dio.
Nel dettaglio è emerso che Hezbollah dovrebbe disporre di un arsenale di circa 50.000 razzi e missili e, tra questi, almeno 40/50 missili terra aria Fateh – 110 in grado di colpire Israele.
Sempre dai documenti sono emerse le principali direttrici del traffico di armi che coinvolge il Medio Oriente: armi dal Sudan per Hamas,armi dall’Iran a Hezbollah e missili dalla Corea del Nord a Iran e Siria.
Il coinvolgimento della Corea del Nord non va mai dimenticato soprattutto in relazione a quanto avvenuto in Siria nel lontano 6 settembre del 2007.
In quell’occasione l’aviazione israeliana bombardò un’area nel Nord della Siria, denominata Dayr az-Zwar, dove secondo l’intelligence israeliana, il regime di Damasco avrebbe stoccato materiali, tecnologie, e sistemi d’arma forniti dalla Corea del Nord, utili per assemblare missili a media e lunga gittata con testate atomiche.

IL LUNGO VIAGGIO DI TAMAT

18 novembre 2010

INTERVISTA A PATRIZIA SPADA Presidente e co-fondatrice della ONG Tamat

di Francesco La Rosa

Patrizia Spada

Che cosa significa Tamat?

Tamat è un albero del Sahel, un’acacia seyal nella lingua Tamahaq (lingua dei Tuareg). La nostra esperienza nella cooperazione allo sviluppo nasce in questa regione ed in campo agricolo. L’albero Tamat rappresenta le nostre radici e continua a rappresentarci nella nostra storia.

Cosa vi ha spinto in questa avventura?

La storia di Tamat nasce nel lontano 1978 da una profonda amicizia nelle aule della Facoltà di Agraria, dall’impegno nel sociale, dalla passione per l’Africa, dalla voglia di cambiare il mondo e dalla convinzione che ciò fosse possibile.

Ma in concreto di cosa vi occupate?

Realizziamo progetti di cooperazione allo sviluppo. Dal 1995 abbiamo creato una rete di contatti con piccole e grandi realtà associative, con autorità locali e con singoli privati in alcune aree del mondo che per cause strutturali o contingenti si trovano in una situazione di povertà estrema. Con i nostri partner abbiamo dato vita ad una serie di interventi che non solo hanno contribuito a migliorare il tenore di vita della popolazione, ma hanno anche avviato dei meccanismi autonomi di “auto sviluppo”. In questo ultimo aspetto risiede la sostenibilità dei nostri progetti, di cui andiamo fieri.

Oltre alla qualità della vita ed all’economia, intevenite anche in altri settori?

Oltre ai progetti di cooperazione, Tamat è attiva anche nell’Educazione allo Sviluppo (o Educazione alla Cittadinanza Globale) nelle scuole primarie e secondarie, e nella formazione per adulti con progetti finanziati da fondi UE.

Quali sono i Paesi in cui operate e con quali progetti?

Attualmente siamo presenti con i nostri progetti in Burkina Faso, Mali, Bosnia-Erzegovina e Paraguay. Individuiamo insieme ai nostri partner i bisogni e le possibilità di sviluppo, insieme a loro, realizziamo interventi di sviluppo agricolo/rurale non solo attraverso interventi strettamente tecnici (approvvigionamento idrico, miglioramento della crescita delle colture, ecc.), ma anche grazie al microcredito, alla formazione e alla promozione dei diritti fondamentali.

Continuate ancora a pensare che cambiare il mondo sia possibile?

Sinceramente l’ottimismo e l’entusiasmo originario sono messi costantemente alla prova: la distanza dagli obiettivi del millennio ci si pone regolarmente dinanzi con schiacciante evidenza, non solo sotto forma di dati e statistiche, ma di situazioni reali, di vite di persone, di ragazzi e di donne soprattutto, con cui abbiamo a che fare. D’altro canto proprio le nostre missioni in loco e il contatto con la realtà aiutano a tener sempre ben presenti i nostri obiettivi di sempre e ad alimentare la nostra motivazione. Inoltre, sempre più Tamat è rappresentata da giovani in gamba, con un forte senso di responsabilità e, soprattutto, con una riserva inesauribile di entusiasmo, fattore trainante di qualsiasi progetto, idea, sogno. Infine, per dirla con una frase di Henrí Desroche, a cui sono molto legata “Nessuna strada ha mai condotto nessuna carovana fino a raggiungere il suo miraggio ma solo i miraggi hanno messo in moto le carovane”.

 

Esteri, la Siria e i nuovi scenari mediorientali

23 settembre 2010

di Matteo Bressan

I cambi di fronte e le pressioni dei potenti vicini del Libano su una comunità piuttosto che su un’altra sono una costante della vita politica del Paese dei Cedri. Allo stesso tempo la storia del Libano è segnata dall’arrivo degli eserciti stranieri e dalle milizie armate: l’Olp, i siriani, i sauditi, gli yemeniti del Nord, i sudanesi, gli israeliani, gli americani, i francesi, gli italiani e il contingente britannico sono stati sempre ben accolti dal gioioso, scaltro e sospettoso libanese. Tutti gli eserciti che hanno attraversato o stazionato in Libano si sono sempre impegnati a non fermarsi una sola ora, un solo minuto più del necessario, per poi uscire dal complesso scenario libanese frustrati o umiliati.

Questa costante, insieme alla frammentazione comunitaria e confessionale della società libanese, va tenuta in considerazione alla luce di quanto sta avvenendo all’ombra del vertice tra Israele e Autorità Nazionale palestinese. Infatti, pur constatando che il fulcro della difficile partita è incentrato sul tentativo dell’amministrazione Obama – discutibile nei modi – di giungere alla costituzione di uno Stato palestinese, non sfuggono le manovre di Arabia Saudita ed Emirati Arabi di allontanare la Siria da Hezbollah, l’ingombrante Partito di Dio.

In questa direzione vanno anche le dichiarazioni del premier Saad Hariri, il quale, dopo aver per quattro anni puntato il dito contro la Siria quale mandante dell’assassinio del padre Rafiq, ha spiazzato molti analisti. In realtà erano emersi segnali di riavvicinamento già dallo scorso dicembre, quando il giovane Hariri aveva effettuato una storica visita in Siria, la prima delle tante che si sono succedute negli ultimi mesi. In quell’occasione evidenziammo che l’unica strada politica percorribile in vista della stabilizzazione del Libano passava per Damasco. Le dichiarazioni concilianti del premier Hariri, tese a distendere i rapporti tra Libano e Siria scagionando quest’ultima dal coinvolgimento nell’omicidio del padre, lasciano intuire come il vero pericolo sia Hezbollah. Nel giro di un anno, infatti, anche le indagini del Tribunale Speciale libanese hanno attutito le responsabilità siriane, per concentrarsi sul Partito di Dio.

La Siria torna quindi a giocare il ruolo di arbitro e paciere del Libano, e torna ad applicare quella che è stata storicamente la dottrina di Damasco nei confronti del Paese dei Cedri. La Siria, infatti, intervenuta nella guerra civile del 1975 a sostegno dei cristiani maroniti, ha sempre alimentato una latente conflittualità tra le varie comunità senza mai prediligere o sostenere la supremazia di una sulle altre. La stabilità del Libano è stata anche, in passato, un motivo di ricchezza per l’economia della Siria, che ha sempre gestito la tensione con Israele in base alle convenienze regionali e internazionali.

A questo punto, però, la partita sembra essere più difficile del solito. Per tre motivi. In primo luogo perché una politica eccessivamente filo-siriana metterebbe in difficoltà gli equilibri della

Coalizione del 14 marzo, attualmente al governo e nata in chiave anti-siriana. Il secondo problema è poi costituito dall’arsenale e dalla compattezza di Hezbollah, che nel sud del Libano è ormai a tutti gli effetti il vero padrone e arbitro della stessa sorte della missione UNIFIL. Hezbollah, infatti, potrebbe non gradire una restrizione del proprio campo di azione politico e militare e potrebbe saldare ancora di più i propri legami con l’Iran. Il rischio che il giocattolo sia sfuggito di mano e che la situazione possa degenerare è inoltre supportato dall’interesse che lo stesso Ahmadinejad sta dedicando al Libano. Il presidente iraniano, infatti, sarà in visita ufficiale il prossimo 13 ottobre in Libano e, oltre a visitare i luoghi della «resistenza» del Partito di Dio contro l’acerrimo nemico israeliano, potrebbe offrire al Paese dei Cedri nuove forniture di armi in sostituzione di quelle americane. Va ricordato, infatti, che dopo l’incidente avvenuto lo scorso agosto alla frontiera tra Libano e Israele, gli Usa hanno sospeso le forniture all’esercito libanese poiché seriamente preoccupati delle infiltrazioni di Hezbollah all’interno di questo. Non è da escludersi, pertanto, la possibilità che la Siria cerchi di armare e sganciare Amal, il partito del presidente del Parlamento libanese Nabih Berri, da Hezbollah, come gli incidenti avvenuti alla fine di agosto a Beirut ovest sembrano far pensare.